Farsi male. Perché?

Pubblicato il   / Psicologia e dintorni
Farsi male. Perché?

 

Si chiama autolesionismo il bisogno irrefrenabile di tagliarsi, sbattersi, tirarsi i capelli, ferirsi, bruciarsi. Fortunatamente più di rado, si può osservare anche nei bambini.

Sembra che farsi male abbia la funzione di attutire un malessere psichico, un dolore interiore così insopportabile da avere il bisogno di spostarlo sul corpo per distrarsi e trovare sollievo nel dolore fisico.

Comportamenti autolesionistici sono frequenti in particolare  negli adolescenti, soprattutto di sesso femminile, ma è possibile che si presentino anche negli adulti e negli anziani quando si venga raggiunti da un dolore intollerabile, o in stati di depressione, o quando ci si sente morti dentro, vuoti, senza senso.

Altre volte è collegato all’odio verso sé stessi e al desiderio di distruggersi. In tutti questi casi, il dolore sul corpo viene vissuto come più controllabile rispetto a quello psichico; inoltre ha la funzione di rendersi maggiormente visibile anche agli occhi degli altri e in qualche modo è una implicita richiesta d’aiuto.

Più spesso, al contrario, si ha vergogna dei propri comportamenti autolesionistici tendendo a coprirli o a minimizzarli di fronte agli altri, diventando pratiche solitarie che si acuiscono nei momenti di maggiore stress o con l’esplodere dei conflitti affettivi dai quali  traggono origine.

Le sofferenze emotive infatti sono per alcuni individui insostenibili, unitamente alla incapacità di esprimerle ed elaborarle costruttivamente. Si strutturano così “copioni perversi” (come li definisce L. J. Kaplan nel suo “Perversioni femminili”) attraverso cui sostenere le paure di castrazione, di abbandono e separazione identificandosi con il presunto aggressore e risolvendo il conflitto con una castrazione attiva.

Farsi male. Perché?Per molti adolescenti, inoltre, farsi male rappresenta un gesto di sfida rispetto all’autorità genitoriale, un modo di autorappresentarsi come padroni del proprio corpo. In tal senso rientra l’abitudine di tatuarsi ripetutamente il corpo insieme al riempirlo di piercing: modi ( o mode) attraverso cui segnalare la ribellione verso il mondo dell’adulto affermando la propria capacità di esercitare il controllo su sé stessi infliggendosi sofferenze che, per quanto condivise culturalmente, liberano aggressività, rabbia, ma anche ansia e angoscia.

Allo stesso modo si possono interpretare i continui e talora ossessivi ritocchi estetici, sottoponendosi a delicati quanto dolorosi interventi chirurgici, con i quali tenere a bada l’angoscia di invecchiamento e di morte che per alcune donne vanno molto al di là della cura di sé, rappresentando al contrario una fondamentale mancanza di stima e incapacità ad accettarsi .

In ogni caso, e al di là dei differenti significati simbolici contenuti in questi gesti, farsi male è un modo per connettersi con il proprio corpo, sentirlo, riappropriarsi attraverso il dolore fisico della propria identità sfuggendo alla insensatezza della propria esistenza,  marcando sul  corpo la propria difficoltà  di esistere.

 

Come si cura

Il primo passo è sempre fare riconoscere ed accettare “il problema” come tale, lavorando sulla consapevolezza e sulla motivazione ad affrontarlo per poterlo superare.

Sulla base di un contratto terapeutico condiviso è necessario fare luce sugli impulsi aggressivi inconsci che stanno alla base delle “performance” autolesionistiche, nel tentativo di allentarne la pressione , riducendone la frequenza e la necessità di porle in atto. Lo spazio terapeutico è sempre contenitore di contenuti e stati emotivi che possono essere espressi e “liberati”, trovando nella relazione il modo più adatto per rivivere i conflitti e i traumi affettivi cui  i propri comportamenti sono collegati.