Tutto sui disturbi alimentari: anoressia, bulimia e obesità

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disturbi alimentari


I disturbi alimentari e l’obesità sono condizioni che hanno invaso la nostra società e devastato la vita di molte persone, portandole a far ricadere sul corpo, le proprie sofferenze emotive.                    

Sono caratterizzati da una significativa alterazione del comportamento alimentare, della percezione del proprio peso e della propria immagine corporea e i più diffusi sono l’anoressia e la bulimia. L’anoressia nervosa si contraddistingue per il rifiuto della persona a mantenere il peso corporeo al di sopra del limite normale, mentre la bulimia nervosa è caratterizzata da ricorrenti episodi di abbuffate, mediate da diversi comportamenti inappropriati per controllare il peso (vomito autoindotto, diuretici, lassativi, etc…).                                                                               

Quindi la psicopatologia del comportamento alimentare consiste di due macrocriteri diagnostici: un’alterazione del rapporto col cibo e una variabile alterazione della percezione della propria immagine corporea. Per dare sollievo a questi pazienti è necessario considerare il nucleo patologico del loro vissuto, rilevabile mediante un approccio eidetico, che non considera il singolo sintomo ma la complessità dell’esperienza del soggetto.

L’obesità merita, invece, un discorso a parte perché non è stata inclusa tra i disturbi mentali nel DSM-5, ma ciò non toglie che esiste una forte associazione tra tale patologia e numerosi disturbi mentali (per es. disturbo binge-eating, disturbo depressivo, disturbo bipolare e schizofrenia).

Ciò che comunque accomuna tutti i disturbi del comportamento alimentare, è la tendenza ad esprimere la sofferenza psichica attraverso il comportamento, facendo prevalere l’azione sul pensiero, esprimendo così un’incapacità a mentalizzare o un rifiuto a farlo per evitare il dolore psichico.
 

EMOZIONI E CIBO: LA FAME NERVOSA

Le emozioni, lo stress e il cibo fanno parte integrante della vita di tutti i giorni ma per alcune persone diventano dei valichi da attenuare, superare e poi sconfiggere. Sembra quasi una lotta che dura da tempo e dalla quale non si riesce a trovare una via d’uscita.

Trovare l’equilibrio significa investire del tempo verso se stessi, fermarsi a riflettere, chiedere aiuto per trovare risposte diverse da quelle abituali e dalle quali si è bloccati. 

Lo stretto rapporto tra emozione e cibo fa riferimento allo stato d’animo nel quale ci si trova e dal quale si cerca di uscire vedendo come unica strategia il cibo. 

Visioni semplicistiche, visioni individuali e pensate come assolutamente inspiegabili e immodificabili. 
Ci sono dei meccanismi che mantengono dei pensieri distorti relativi al cibo e a se stessi, delle preoccupazioni per le forme e il peso corporeo, dei comportamenti incontrollabili, ma tutto ciò può avere una spiegazione. 

Si parla tanto di autostima, di controllo degli impulsi, di consapevolezza, ma prendere atto di questo e poi riuscire a lavorare e porsi degli obiettivi raggiungibili verso se stessi è un impegno. E chi ha voglia di impegnarsi in un mondo frenetico come il nostro?  

Bisogna darsi fiducia, bisogna lasciarsi aiutare e soprattutto saper chiedere aiuto. 
La chiave sta dentro ogni persona, quella persona che deve riuscire a trovare l’equilibrio alimentare, l’equilibrio comunicativo e quello emotivo. 

Dare una possibilità a se stessi di potersi modificare e migliorare è già il primo passo.
 

LA PIAGA SOCIALE

I disturbi alimentari e l’obesità vengono considerati una piaga della società moderna, una società profondamente cambiata rispetto a quella passata. 

Nel Medioevo, il digiuno prolungato delle sante anoressiche era giustificato dall’ideale mistico religioso di mortificazione del corpo e dell’ascesi spirituale; oggi invece è l’ideale estetico a giustificare questi comportamenti alimentari.

L’obiettivo di un peso e di un aspetto fisico ideale era del tutto assente nelle forme di digiuno del passato: al bisogno dell’anoressica di rassicurarsi sul piano narcisistico attraverso un controllo perfetto degli impulsi, la cultura attuale fornisce la razionalizzazione di un ideale estetico di magrezza, come la religiosità medioevale forniva quella di un ideale mistico religioso.

Se anche in passato la ricerca della perfezione imponeva ad alcuni giovani donne la negazione delle necessità fisiologiche, tramite privazioni e rinunce, solo oggi ciò avviene in nome di una delirante paura di ingrassare; oggi l’etica estetica rinforza i comportamenti anoressici, facendo sottomettere l’Io ai comportamenti dell’estetica (dieta, fitness, cura ossessiva del corpo e dell’alimentazione, attenzione per il look).

I modelli culturali attuali affermano il valore estetico di un corpo magro ed efficiente, atletico e sano, e rifiutano il corpo materno, morbido ed accogliente che, al contrario, altre epoche avevano assunto come canone estetico e modello ideale di femminilità. Tutto ciò si verifica in contemporanea ad una perdita di valore sociale della maternità, che appare oggi a molte donne non più un destino obbligato, ma una meta difficile e conflittuale, cui dare spazi esigui e residuali nella propria vita e nella propria rappresentazione di sé.

Il sistema di valori che ispira l’ideale anoressico-bulimico varia nelle diverse società e culture, mentre il conflitto relativo all’identità di genere sembra una costante, soprattutto nei disturbi del comportamento alimentare in adolescenza: il corpo femminile che svela la pubertà, che porta i segni di un destino femminile materno e che viene visto come una minaccia, viene attaccato e mortificato. 

A ciò si aggiunge il difficile compito di essere donna, madre e persona, coniugando ruoli e sistemi di valori scissi nel sociale, in un contesto sociale che non favorisce l’integrazione, non fornendo neanche gli strumenti adeguati per l’elaborazione culturale e di valorizzazione delle competenze materne.

Oltre a quanto detto, bisogna ricordare che in passato vigeva il programma della civiltà che comportava la rinuncia al soddisfacimento immediato delle proprie esigenze pulsionali e un limite ai nostri moti egoistici. La società inseriva un limite nell’agire umano che era fonte di un grosso disagio, perché, per essere un degno cittadino bisognava comportarsi con moralità, rinunciando alla propria soddisfazione immediata; la moralità era un dovere << Per essere civile devi rinunciare all’animale, devi rinunciare all’appagamento senza freni delle tue pulsioni>>. 

Oggi, invece, il programma della civiltà non obbliga alla rinuncia del soddisfacimento immediato, anzi lo incentiva e lo richiede; oggi c’è il dovere del godimento, all’aspirazione dell’ideale si sostituisce il consumo di oggetti di godimento. La società odierna ha eliminato la possibilità di sperimentare il vuoto e la mancanza, sostituendoli con una moltitudine di oggetti che però creano scompiglio nell’essere umano e rischiano di fargli perdere la sua vera essenza e la sua identità.

La bulimia e l’obesità evidenziano molto bene questo meccanismo perché la persona si riempie lo stomaco di cibo, convoglia ogni sua attività nel cibo ma sempre senza raggiungere un vero stato di sazietà perché il vuoto è sempre pronto a tornare; osservando il suo comportamento col cibo si legge il suo rapporto con la vita: non trattiene nulla, è sempre alla ricerca di qualcosa che lo soddisfi, ma appena l’ha trovato non riesce a saziarsi e ricerca subito altro, non apprezza le esperienze che vive ed è schiavo di ciò che la società offre e chiede, avendo un grosso desiderio di consumare tutto ciò che gli si presenta. 

L’anoressia, al contrario, vuole esprimere la rinuncia a ogni consumo: lo sciopero dalla fame è un chiaro messaggio di indipendenza da qualsiasi oggetto di godimento. La persona anoressica utilizza il proprio corpo per evidenziare la sua identificazione morbosa con il vuoto e con la mancanza; vedere il proprio corpo vuoto, le crea soddisfazione e godimento. 

In apparenza chi soffre di queste patologie si mostra uguale nei rituali e nelle manifestazioni col cibo, ma in realtà le sofferenze che spiegano tale atteggiamento possono essere molto diverse perché ogni persona è diversa dall’altra e quindi anche le cause e le manifestazioni di queste patologie sono diverse; l’unica via di cura per queste patologie è far riscoprire il proprio essere, non volersi adeguare ad ogni costo agli standard sociali, ma saper trovare la propria dimensione e la propria felicità.
 

ANORESSIA NERVOSA
 

Caratteristiche diagnostiche secondo il DSM-5  

Le caratteristiche principali che identificano l’anoressia nervosa sono la persistente restrizione nell’assunzione di calorie, l’intensa paura di aumentare il peso o di ingrassare e l’alterazione della percezione di sé relativa al peso e alla forma del corpo; l’individuo proprio a causa di questi aspetti, mantiene un peso corporeo al di sotto di quello minimo normale per età, sesso, traiettoria di sviluppo e salute fisica (nei bambini e negli adolescenti, non è raro notare che più della perdita di peso, si rileva l’incapacità di raggiungere il peso previsto unito alla difficoltà di mantenere una traiettoria di sviluppo normale).

Tra le diverse cause prese in considerazione per spiegare parte dei sintomi e dei segni dell’anoressia nervosa, le più accreditate sono state l’alterazione della percezione della propria immagine corporea, e il tentativo di aderire a un’immagine estetica di magrezza, che i mass-media hanno progressivamente valorizzato nel corso degli anni. Da sole però, nessuna di queste due spiegazioni può essere sufficiente e questo perché non tutte le persone magre sono anoressiche e perché casi patologici simili all’anoressia sono stati rilevati anche nel corso dei secoli passati (quando ancora non era presente il modello della magrezza come sinonimo di bellezza).

Proprio per tale ragione, nonostante diverse potrebbero essere le spiegazioni per l’insorgenza della patologia, la cosa più importante è analizzare l’esperienza situata, già significativa del soggetto, che deve essere riconfigurata identitariamente.

Il nucleo centrale che caratterizza questi pazienti è la protratta astinenza dal cibo con la costante sensazione di essere affamati e un senso di stabilità personale polarizzato sul versante dell’alterità (dell’Altro). 

Il corpo diventa il mezzo per controllare e anticipare ogni emozione, permettendoci di aderire quanto più possibile ai canoni proposti dalla società contemporanea, ma questo corpo, sarà responsabile di un senso sbiadito di Sé che causerà sentimenti di vuoto e nullificazione; l’unica forza che ci permette di ri-orientarci nel mondo è la fame, grazie alla sua capacità di farci ritirare verso il nostro Sé (ipseità), a scapito dell’Altro.

L’anoressica si mantiene affamata perché ciò le permette di sviluppare e mantenere un senso di Sé forte e demarcato, dotato di qualità che non tutti possono permettersi di avere e che quindi sono per lei fonte di orgoglio e soddisfazione.

La complessità della diagnosi spesso risiede nel fatto che è difficile valutare adeguatamente il peso, perché, il range di peso normale differisce tra individui, e le pubblicazioni che definiscono la magrezza e il sottopeso sono molteplici; un tipo di classificazione proposta è l’uso dell’indice di massa corporea (BMI), che calcola la relazione tra peso in Kg e altezza in m² (quattro livelli di gravità: lieve = BMI≥17; moderata = BMI 16-16,99; grave = BMI 15-15,99; estrema = BMI<15).

Gli individui con questo disturbo sono tipicamente impauriti dalla possibilità di aumentare di peso o di diventare grassi (paura che non si allieva neanche dalla perdita consistente di peso, anzi la preoccupazione può anche aumentare), e spesso non riconoscono e non accettano questa loro paura.

Il significato e la percezione attribuiti al peso e alla forma del proprio corpo sono distorti: alcuni individui possono sentirsi globalmente in sovrappeso, mentre altri ammettono di essere magri ma individuano delle parti del loro corpo che ancora non hanno raggiunto le dimensioni desiderate (es. addome, gluteo o cosce); tutto questo fa mettere in atto diverse tecniche di valutazione del proprio stato, come il pesarsi, misurarsi o specchiarsi continuamente. 

Per chi soffre di anoressia nervosa, la percezione del proprio corpo influisce profondamente sui livelli di autostima, infatti se la perdita di peso può essere vista come una conquista e un segno della propria autodisciplina, l’aumento viene visto come un’inaccettabile mancanza di autocontrollo.

Nella maggior parte di casi, il soggetto arriva all’attenzione clinica condotto dai familiari, conseguentemente a una significativa perdita di peso ma, in certe occasioni può essere lo stesso paziente a chiedere aiuto a causa del disagio provocato dalle conseguenze somatiche e psicologiche del digiuno. E’ comunque molto raro che la persona anoressica si mostri preoccupato per il dimagrimento e abbia consapevolezza del problema (spesso nega il problema), quindi è molto importante raccogliere informazioni sulla storia dai familiari.

Nella valutazione clinica è bene distinguere tra anoressia nervosa con restrizioni (quando il soggetto non ha presentato ricorrenti episodi di abbuffata o condotte di eliminazione) e anoressia nervosa con abbuffate e condotte di eliminazione (es. vomito autoindotto, uno inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi).
 

Caratteristiche associate a supporto della diagnosi

Gli aspetti tipici dell’anoressia nervosa, quali il semidigiuno, la compromissione nutrizionale e le condotte di eliminazione che talvolta vengono praticate, possono portare a condizioni mediche significative e potenzialmente pericolose per la vita (es. disturbi fisiologici come amenorrea).

Quando sono gravemente sottopeso, molti individui con anoressia nervosa, presentano segni e sintomi depressivi (come umore depresso, ritiro sociale, irritabilità, insonnia e diminuito interesse sessuale), preoccupazione nel mangiare in pubblico, sentimenti di inadeguatezza, un forte desiderio di tenere sotto controllo l’ambiente circostante, rigidità mentale, ridotta spontaneità sociale ed espressività emotiva eccessivamente repressa (soggetti con atti di abbuffate e condotte di eliminazione presentano anche maggio impulsività e rischio di abuso di alcool o di altre sostanze).

Alcuni individui anoressici, prima dell’esordio del disturbo, intensificano la propria attività fisica, e successivamente la portano avanti per accelerare la perdita di peso; a ciò possono unire un uso improprio dei farmaci, che impediscono l’aumento della propria massa grassa.

Spesso si verificano anche manifestazioni ossessivo-compulsive, correlate o meno al cibo (es. collezionare ricette, ammassare cibo); in caso di ossessioni e compulsioni non associate al cibo è bene effettuare una diagnosi aggiuntiva di disturbo ossessivo-compulsivo (DOC).
 

Sviluppo, decorso e conseguenze

L’anoressia nervosa inizia comunemente durante l’adolescenza o la prima età adulta (colpisce più frequentemente le donne rispetto agli uomini) e l’esordio è spesso associato a un evento stressante.

Il decorso e la remissione sono estremamente variabili: alcuni individui guariscono completamente dopo un singolo episodio, mentre altri vanno incontro a un decorso cronico nel corso degli anni (non sono esclusi anche ricoveri temporanei in ospedale per recuperare il peso corporeo); in generale, la maggior parte dei pazienti va incontro alla remissione dei sintomi entro 5 anni dalla prima manifestazione.

Pazienti con anoressia nervosa possono mostrare diverse limitazioni funzionali associate al disturbo: alcuni restano attivi nel loro funzionamento sociale e professionale, altri mostrano isolamento sociale e/o un mancato raggiungimento del potenziale scolastico o del successo professionale. Il rischio maggiore per questo genere di pazienti è l’elevato rischio di suicidio a cui vanno incontro.
 

Fattori di rischio 

I rischi che maggiormente influenzano l’anoressia nervosa sono di origine temperamentale, ambientale e genetico/fisiologico.

I fattori temperamentali sono prevalentemente ansia e ossessività; quelli ambientali sono la propria storia, il proprio retroterra culturale (l’appartenere a culture in cui la magrezza è vista come un valore predispongono maggiormente ad ammalarsi) e la professione svolta (es. il lavoro di modella o di atletica ai massimi livelli); quelli genetico/fisiologico, infine, riguardano la parentela biologica di primo grado con individui con il disturbo.
 

Situazioni tipiche per l’esordio del disturbo anoressico

L’origine del disturbo anoressico-bulimico può dipendere da diverse cause, spesso anche incrociate tra loro, ma le più riconosciute sono: la scoperta della sessualità e l’incontro con l’altro sesso, l’esperienza di separazione dall’Altro significativo, le prime esperienze amorose, la rottura della coppia immaginaria e l’esposizione al godimento sregolato dell’Altro.

La scoperta della sessualità e quindi l’incontro con l’altro sesso, che può avere ragioni diverse a seconda della struttura psichica del soggetto anoressico: in presenza di anoressia psicotica, si rifiuta il cibo per difendersi dall’invadenza distruttiva e sregolata di un godimento maligno, mentre nell’anoressia nevrotica, l’astinenza dal mangiare è una conseguenza dell’incontro con il corpo sessuato, che genera nel soggetto pesanti conflitti morali (durante la pubertà si scopre la sessualità e questa è fonte di sentimenti ambivalenti).

L’esperienza di separazione dall’Altro significativo, invece, rappresenta un modo per separarsi dalla volontà dell’Altro,riconquistando una posizione e un diritto di parola soggettivo, che ci permette di esprimere il rifiuto davanti a diverse imposizioni esterne. Esempi di tali esperienze possono essere un trasloco imposto, una separazione temporanea dalla famiglia, un viaggio all’estero, il divorzio dei genitori o la perdita di una persona cara.

In  particolar modo, questi ultimi due avvenimenti possono diventare fattori scatenanti il disturbo quando non viene svolto adeguatamente il lavoro del lutto, causando così una separazione fallimentare che non avvenendo in modo simbolico, passa direttamente nel reale, e porta il soggetto ad identificarsi con l’oggetto perso.

La separazione diventa la separazione del soggetto dalla sua vita stessa e l’anoressica, dietro al suo corpo magro nasconde proprio l’angoscia della separazione, mettendo in luce un suo rapporto debole con il proprio desiderio; ecco che quindi, come meccanismo di difesa il soggetto perde la propria identità per assumere quella dell’anoressia (una barriera verso l’instabilità che ogni distacco può suscitargli).

Durante le prime esperienze amorose, invece, soprattutto la ragazza, investe numerose energie perché scopre la propria femminilità, l’amore e il significato della mancanza dell’Altro. La giovane può decidere di affidarsi completamente all’Altro, facendosi travolgere da questo nuovo sentimento ma, un tradimento da parte del fidanzato, la getta nello sconforto più totale, spingendola a bloccare la propria domanda d’amore e a rifugiarsi nel controllo del suo corpo come dimostrazione del proprio potere.

Per rottura della coppia immaginaria ci si riferisce, invece, a improvvise rotture di relazioni in cui il soggetto si sentiva una sola cosa con l’Altro (es. tradimento di un marito, classi scolastiche diverse per due gemelle, fine di una forte amicizia) e ciò causa uno svuotamento del corpo e dell’essere; in queste circostanze il ricorso all’anoressia serve per sostituire l’Altro, per formare una nuova coppia capace di rassicurarlo.

Infine, l’esposizione al godimento sregolato dell’Altro può portare all’anoressia come forma di fuga dal comportamento inappropriato dell’Altro (es. abuso sessuale), permettendo così al soggetto di preservar la propria identità. La forte determinazione al corpo magro, la  e la fermezza a cui si sottopone la persona, rappresentano un modo per regolare l’irregolarità del godimento malato dell’Altro.

L’anoressia è l’unica via di fuga per salvare il proprio essere dall’aggressione dell’Altro (al quale non possiamo sfuggire).
 

Trattamento dell'anoressia nervosa
 

Terapia farmacologica

Sembra probabile che alla base di questa patologia ci sia uno squilibrio organico, di conseguenza, all’interno di un intervento terapeutico nell’anoressia, è spesso previsto anche un trattamento antidepressivo. 

Tra gli antidepressivi, generalmente, si considerano di prima scelta quelli che agiscono sulla noradrenalina; successivamente, specifiche valutazioni possono portare alla scelta di un farmaco serotoninergico. 

Altri farmaci, come ad esempio gli ansiolitici, non hanno alcun effetto, mentre gli antipsicotici inducono un inaccettabile appiattimento della personalità. 

Da non dimenticare che, anche quando il farmaco sblocca la situazione, l’anoressia rimane molto problematica fino a quando non si raggiungono dei risultati permanenti e significativi a livello cognitivo e comportamentale.
 

Terapia psicoterapeutica

Nello stabilire un rapporto psicoterapeutico con un paziente anoressico è bene porsi come primo obiettivo, non tanto quello di far prendere peso al soggetto, quanto di liberarlo dalla trappola costituita dal rapporto con il cibo e con il corpo. 

Spezzare questa ossessione permette al paziente di dedicarsi ad attività e pensieri più gratificanti: ciò è già di per sé sufficiente a creare una condizione fisica accettabile, con un corpo non affamato, non indebolito e normalmente funzionante (per le femmine un primo segno di normalizzazione delle funzioni fisiche potrebbe essere la ricomparsa delle mestruazioni).

In questa prima fase di recupero, può essere utile concordare col paziente un peso da lui considerato non pericoloso, da mantenere fino a che egli non apparirà pronto ad altri aumenti. Generalmente, se il paziente riesce ad aumentare di qualche chilo, inizia a sentire già dei benefici fisici,: minore freddo, maggiore energia e capacità di divertirsi, più creatività nel pensiero e nell’azione, ecc. 

Lo psicoterapeuta deve avere la tempestività e la capacità di mettere in luce, esaltare e rinforzare questi aspetti, in modo da insegnare al paziente a considerarli gratificanti e sentirli come risultati positivi.
 

BULIMIA NERVOSA
 

Caratteristiche diagnostiche secondo il DSM-5

Le caratteristiche principali che caratterizzano il disturbo di bulimia nervosa sono i ricorrenti episodi di abbuffata, le ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso e i livelli di autostima indebitamente influenzati dalla forma e dal peso del corpo. Per rendere valida la diagnosi, tali condotte devono verificarsi minimo una volta alla settimana per 3 mesi (ci sono quattro livelli di gravità: lieve = da 1 a 3 episodi a settimana; moderata = da 4 a 7 episodi a settimana; grave = da 8 a 13 episodi a settimana; estrema = 14 o più episodi la settimana).

Un episodio di abbuffata è definito come l’ingestione in un periodo di tempo (meno di 2 ore) di una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte degli individui assumerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili (lo spiluccare piccole quantità di cibo durante tutto il giorno non è considerato un’abbuffata). 

Un singolo episodio di abbuffata non deve avvenire necessariamente in un unico contesto, ma per la valutazione clinica è molto importante avere informazioni sul contesto o sui contesti specifici in cui si è attuato il comportamento.

L’eccessivo consumo di cibo deve essere accompagnato dalla sensazione di perdere il controllo (sensazione soggettiva) e di essere incapaci dall’astenersi o dallo smettere di mangiare.

Il tipo di alimento ingerito e ricercato durante le abbuffate varia da un individuo all’altro e in uno stesso individuo in tempi diversi; gli unici aspetti costanti sono l’anomala quantità di cibo consumato e il desiderio incontrollato di un alimento specifico (può anche capitare che si mangino cibi che in altre circostanze si sarebbero evitati). 

Gli individui che soffrono di bulimia nervosa spesso si vergognano dei loro problemi con l’alimentazione e tentano di nascondere i sintomi, mettendo in atto il comportamento di abbuffata in solitudine, e continuando a farlo fino a che non raggiunge una sensazione sgradevole e dolorosa di sazietà.

Gli antecedenti che possono spiegare un simile atteggiamento possono essere diversi, e tra questi si può individuare un’emozione negativa, una condizione interpersonale stressante, una restrizione dietetica, la noia o sentimenti negativi correlati al peso, alla forma del corpo e al cibo; l’abbuffata può minimizzare o attenuare i fattori che hanno scatenato l’episodio nel breve termine, ma l’autosvalutazione e la disforia sono spesso delle conseguenze ritardate.

Un’altra caratteristica essenziale della bulimia nervosa è il frequente ricorso a condotte compensatorie inappropriate, che servono a prevenire l’aumento di peso (condotte di eliminazione) quali per esempio il vomito, l’uso inappropriato di lassativi e diuretici. Il vomito, nello specifico permette di ridurre la sensazione di malessere fisico e la paura di aumentare di peso; uno dei rischi maggiori è che il vomito diventi un obiettivo in sé, portando il soggetto a mangiare per poter vomitare e a vomitare anche dopo aver assunto piccole quantità di cibo (inducendosi anche il vomito stesso per mezzo della stimolazione del riflesso faringeo). 

Oltre a tali modalità di eliminazione è possibile che l’individuo digiuni per uno o più giorni o ricorra ad una eccessiva attività fisica (per eccessiva si intende la sua interferenza con altre importanti attività, il suo svolgimento in orari o ambienti inusuali, o il suo protrarsi nonostante un divieto medico), che gli permetta di impedire l’aumento di peso.

Così come per gli individui con anoressia nervosa, anche quelli con bulimia nervosa attribuiscono molta importanza alla forma e al peso del corpo per la propria autostima, perché per entrambi, c’è il desiderio di perdere il peso, la paura di ingrassare e l’insoddisfazione per il proprio aspetto fisico.
 

Caratteristiche associate a supporto della diagnosi

I soggetti con bulimia nervosa sono solitamente nei limiti di peso normale o di sovrappeso, mentre è raro che siano obesi, inoltre, tra un’abbuffata e l’altra, tendono a ridurre il loro consumo calorico complessivo, evitando cibi che considerano grassi e che potrebbero fargli scaturire un’abbuffata.

Le femmine che soffrono di questa patologia possono presentare irregolarità del ciclo mestruale o amenorrea; altre conseguenze possono essere sintomi gastrointestinali, lacerazioni esofagee, rottura gastrica e aritmie cardiache. 

Infine per quei soggetti che fanno abuso di lassativi, c’è il rischio di diventare dipendente dal loro utilizzo per stimolare i movimenti intestinali.
 

Sviluppo, decorso e conseguenze 

La bulimia nervosa esordisce solitamente in adolescenza o nella prima metà adulta mentre le abbuffate iniziano in genere durante o dopo un periodo di restrizioni dietetiche o in concomitanza a eventi stressanti.

Il decorso clinico può essere cronico o intermittente, con fasi di remissione alterne a fasi di ricomparsa delle abbuffate, ma in generale, in un’alta percentuale di casi la condotta alimentare alterata persiste per parecchi anni.

Il cross-over diagnostico dalla bulimia nervosa all’anoressia nervosa si verifica in una minoranza di casi, ma nonostante ciò, individui che virano verso l’anoressia nervosa, tendono poi a ritornare verso la bulimia nervosa. 

Esistono poi anche soggetti bulimici che continuano ad abbuffarsi, ma senza mettere in atto condotte compensatorie inappropriate, andando quindi a giustificare una diagnosi di disturbo da binge-eating

E’ stato rilevato un alto tasso di mortalità per persone affette da bulimia nervosa, le quali sono anche a rischio di suicidio.

La bulimia nervosa, infine, può comportare diverse limitazioni funzionali, oltre che una influenza negativa sulla vita sociale.
 

Fattori di rischio 

I principali fattori di rischio sono quelli temperamentali, ambientali e genetici/fisiologici. Gli aspetti temperamentali riguardano le preoccupazioni riguardo al peso, la bassa autostima, i sintomi depressivi, il disturbo d’ansia sociale e il disturbo iper-ansioso dell’infanzia; quelli ambientali contemplano gli abusi sessuali o fisici subiti nell’infanzia; mentre tra quelli genetici/fisiologici c’è l’obesità infantile e la precoce maturazione puberale.
 

Trattamento della bulimia nervosa
 

Terapia farmacologica

Nei pazienti bulimici si osservano spesso alterazioni dei meccanismi nervosi ed endocrini di regolazione della fame, del comportamento alimentare e della sazietà; è dunque giustificato l’impiego di strumenti farmacologici per correggere, per quanto possibile, tali meccanismi alterati. Le ricerche hanno dimostrato l’inutilità dei farmaci anoressizzanti, capaci cioè di togliere l’appetito, poiché l’elemento scatenante la crisi bulimica non è certo la fame.

 Gli ansiolitici si sono dimostrati anch’essi poco utili e spesso rischiosi, data la tendenza all’abuso dei pazienti bulimici.

Tra tutti i farmaci, comunque, gli antidepressivi sono i più efficaci (anche in pazienti con assenza di disturbo depressivo), in particolare modo la fluoxetina.

E’ opportuno ricordare però che per avere un trattamento efficace è importante l’associazione tra il trattamento farmacologico e la psicoterapia ad indirizzo cognitivo-comportamentale: il trattamento combinato, se protratto per almeno sei mesi, si è dimostrato più efficace, rispetto a quello esclusivamente farmacologico, nel ridurre in modo persistente le crisi bulimiche, l’uso di lassativi, la preoccupazione per la dieta e la sensazione incoercibile di fame, oltre ad aver conseguito migliori risultati al follow-up.

La farmacoterapia dunque va intesa come uno strumento che permette al paziente di rompere una catena che lo imprigiona, le cui maglie però, non sono unicamente biologiche.
 

Terapia psicoterapeutica

Per molto tempo, in passato, si è ritenuto che il trattamento di elezione per la bulimia nervosa fosse la terapia familiare; da qualche anno, ripetuti studi hanno dimostrato che l’approccio più efficace e di conseguenza ora maggiormente utilizzato è quello della psicoterapia individuale (in genere condotta a livello ambulatoriale). 

Se si pensa all’età maggiore dei pazienti bulimici rispetto a quelli anoressici e di conseguenza alla qualità diversa dell’attività sessuale ed affettiva, appare evidente e prevedibile il distacco dalla famiglia di origine e dunque improbabile un trattamento familiare. 

Tra i vari tipi di psicoterapie, l’approccio cognitivo-comportamentale a livello individuale ha conseguito i maggiori consensi essendo risultato efficace nel 60% circa dei casi.

Questo intervento è generalmente volto a modificare gli aspetti comportamentali e relazionali legati alla patologia, aumentando nel paziente la consapevolezza delle dimensioni cognitive ed emotive alla base del disturbo; per tale ragione, vengono proposte tecniche di auto-osservazione del comportamento sintomatico, allo scopo di favorire la consapevolezza degli automatismi seguiti in momenti cruciali (quali quelli dell’acquisto del cibo, dell’abbuffata e del vomito) che permettono di evidenziare le componenti cognitive, emotive (comportamento bulimico come mezzo per anestetizzare le emozioni, bisogno di approvazione, sensi di colpa, ecc.) e comportamentali associate a tali momenti. 

Grazie a ciò il paziente diventa consapevole del legame esistente tra alcune sue ideazioni irrazionali, le emozioni e le abbuffate, così come gradualmente riesce a mettere in luce l’effetto gratificante del vomito. 

Nel corso di questa auto-osservazione, in genere, emergono modi rigidi di categorizzare (bianco o nero): questi aspetti, proprio perché identificati e tolti dall’automatismo sono più facilmente modificabili. 

L’inizio della terapia, coincide con la compilazione di un diario alimentare (che spesso però, soprattutto all’inizio, non riporta le informazioni in maniera veritiera) che permette al terapeuta di avere una visione dettagliata del comportamento patologico (frequenza, durata, modalità, quantità di cibo, ecc.) e alla paziente di porre in relazione l’abbuffata con pensieri e comportamenti che possono fungere da eventi scatenanti o da conseguenze rinforzanti. 

Si incentiva poi il soggetto all’acquisizione di nuove competenze sociali e alimentari (es. mangiare solo ai pasti, ma con regolarità), capaci di renderli consapevoli che se riuscissero a seguire la dieta proposta senza strappi, diminuirebbero l’assunzione calorica complessiva perché il senso di sazietà che ne deriverebbe, limiterebbe il piacere delle abbuffate. 

Per concludere è bene sottolineare il fatto che non è comunque facile stabilire un valido rapporto terapeutico con questi pazienti, poiché hanno spesso vergogna di parlare dei propri sintomi oppure, al contrario, possono esagerarli a causa del loro senso di colpa, oltre a manifestare talvolta paura di deludere il terapeuta.
 

RAPPORTO TRA ANORESSIA E BULIMIA

Anoressia e bulimia ad un primo sguardo superficiale, potrebbero apparire come due posizioni opposte caratterizzate rispettivamente dal non mangiare nulla e dal mangiare tutto. In realtà, se analizzate più attentamente, emerge un continuum con un esordio comune, caratterizzato da un radicale restringimento del proprio regime alimentare con un rifiuto più o meno forte del cibo, accompagnato da una sempre maggior attenzione e preoccupazione per la propria immagine e il proprio peso corporeo che potrà far sviluppare la patologia anoressica, seguita, in alcuni casi da quella bulimica.                                                                                                                                       

Nella prima fase, quella anoressica, il soggetto si sente forte perché il rifiuto del cibo lo riconosce come la sua capacità di vincere le pulsioni e controllare le emozioni. Quindi in questa fase il soggetto riesce da solo, si sente invincibile, è ottimista e orgoglioso di queste sue nuove abilità trovate e mostra con estrema fierezza il suo corpo magro. 

Dopo questa fase però, il soggetto riconosce che non può vivere senza mangiare quindi si abbandona alla disperazione bulimica, prodotta dal fallimento del progetto anoressico. In questo momento prevale la depressione, il sentimento di inadeguatezza ed il senso di colpa che lo perseguitano costantemente. 

Inizia così un’alternarsi tra fase anoressica della volontà e fase bulimica dell’abbuffata e della catastrofe, entrambe caratterizzate da insoddisfazione e senso di vuoto: la persona rifiuta il cibo, ma quando si rende conto che non si può vivere di sola aria, si rifugia nell’abbuffata che però, infrangendo il suo ideale anoressico deve sfociare nel vomito, che gli consente di mantenere l’immagine incorrotta del proprio corpo-magro. Ogni abbuffata, esprimendo il godimento orale di cui ci si era privati durante il rigoroso digiuno anoressico, mostra come non si gode di ciò che si mangia ma dell’atto stesso del mangiare, atto che il soggetto vorrebbe protrarre all’infinito.
 

L’ANORESSIA E LA BULIMIA COME RAFFORZAMENTO DELLA PROPRIA IDENTITA’

Avere una patologia di anoressia nervosa o bulimia nervosa spesso viene identificato dalle pazienti non come un avere la malattia ma come l’essere quella malattia. Questo modo di percepirsi però, porta la persona a svuotare il proprio Sé, non percependosi più come un soggetto particolare e unico ma vivendosi solo in funzione del cibo (e del suo rifiuto).

Il primo passo verso la cura, quindi, deve partire dalla disidentificazione del soggetto dal suo sintomo (chi sei se non sei l’anoressica o la bulimica con cui ti sei presentata?), passo molto difficile in quanto ormai il soggetto ha costruito una propria falsa identità che gli fornisce una stabilità psichica (nonostante la sofferenza che comporta avere quel dato sintomo).

E’ tramite il sintomo che il paziente si riconosce e si nomina, nonostante comunque si tratti di una nominazione anonima perché esiste solo come anoressico o bulimico e la sua esperienza è uguale a quella di tutte le altre persone con la sua stessa sofferenza (la sua storia e la sua manifestazione è ormai desoggettivata).

E’ un procedimento lungo e difficile quello che può portare alla guarigione proprio perché l’individuo deve mettere in discussione le certezze che si è fatto sul suo essere e sulla sua identità, certezze inoltre, che gli consentono di sentirsi parte di un gruppo (quello degli anoressici o dei bulimici), in grado di fornirgli rassicurazione e sentimenti di integrazione sociale.
 

L’IMMAGINE IDEALIZZATA DEL CORPO-MAGRO

Il disturbo anoressico-bulimico investe profondamente l’immagine del corpo, corpo che, soprattutto per la donna, ha una forte valenza ed è bello solo se magro.

La persona che soffre di una patologia simile, non riesce in nessun modo ad avere una percezione anche solo minimamente corretta del proprio corpo.

Per l’anoressica non c’è un limite alla magrezza, perché, può sempre perdere qualche chilo e può sempre diventare più magro; questo rappresenta il tipico comportamento femminile, che mai soddisfatta, richiede attenzione, richiede più magrezza e più slancio, fino a diventare uno scheletro.

Tale comportamento però trae origine da due fenomeni: la fase evolutiva nella quale si forma l’immagine del corpo, e il rapporto madre-figlia nel quale il corpo è un luogo all’interno del quale si sviluppa la loro relazione.

Per quanto riguarda la fase evolutiva, una tappa importante si verifica tra i 6 e i 18 mesi, quando cioè il bambino percepisce la sua immagine riflessa nello specchio; in questo momento, il bambino ancora immaturo, non è capace di coordinare i movimenti ma, appena si specchia ecco comparire sul suo volto un sorriso (segno di una qualche forma di riconoscimento). 

Lo specchio gli permette di percepire e vedere il suo corpo integro, nonostante invece la sua percezione di frammentarietà e questo favorisce lo sviluppo della stabilità dell’immagine mentale dell’io.

La gioia che si insinua nel volto del bambino è proprio la dimostrazione che si riconosce come un’identità definita; affinché però il bambino possa fissare il legame tra lui e la sua immagine, è necessario il volto e lo sguardo materno, che gli testimoniano la veridicità del suo riconoscimento.

Quindi la gioia che il bambino prova nel riconoscersi allo specchio è convalidata e supportata dallo sguardo e dal sorriso della propria madre (unico vero giudice a cui il bambino è interessato), che trasmette accettazione e amore per ciò che vede. Essere accettati dalla madre inoltre ha una valenza doppia perché implica anche l’essere accettati dall’intera famiglia ed essere degno d’amore.

Quanto detto sul riconoscimento allo specchio e apprezzamento dalla madre è importante perché determinerà la possibilità futura di accettare e vivere serenamente il rapporto con il proprio corpo.

Il soggetto anoressico-bulimico, infatti, invece del sorriso materno ha ricevuto una smorfia, un segno che qualcosa della propria immagine corporea è sbagliata e che causa una rottura tra la sua immagine e il suo riconoscimento simbolico (l’immagine non confermata dal sorriso materno viene separata dal soggetto). 

La madre (o anche il padre) non restituisce il sorriso al figlio perché esso ha deluso le sue aspettative, il suo ideale narcisistico e l’immagine che le si presenta davanti non la soddisfa.

Tale disapprovazione provoca nel soggetto anoressico-bulimico il desiderio di riparare a questa rottura, cercando di capire come poter aderire alle aspettative materne e fino a che non riuscirà nel suo intendo, perdurerà l’insoddisfazione verso il proprio corpo.

Davanti al rifiuto materno, infatti, la figlia utilizzerà l’anoressia come risposta difensiva e protettiva. 

Non è raro che nei casi di anoressia-bulimia è presenta una madre che, svalutando la figura paterna, ha preso il controllo della famiglia, diventando una figura forte e priva di connotati femminili, che però impediscono la possibilità della figlia di identificarsi con un modello femminile che le indichino la strada per diventare una donna adeguata. 

Solo l’amore incondizionato materno verso la propria figlia permetterà di prevenire il disturbo e il comportamento patologico.

Oltre però al comportamento materno, l’anoressia-bulimia si può sviluppare anche come reazione alla mancanza e all’imperfezione; essa può mostrarsi come un rifiuto del difetto del corpo (un elemento disarmonico del corpo materno), accompagnato da una ricerca ossessiva di perfezione che ci permette di prendere le distanze dall’immagine difettosa che vediamo.
 

ANORESSIA-BULIMIA COME MALATTIA FEMMINILE  

L’anoressia e la bulimia, vengono considerate malattie prevalentemente femminili (a differenza dell’obesità che coinvolge indistintamente entrambi i sessi); i casi di anoressia maschile sono rarissimi, mentre quelli di bulimia sono relativamente più frequenti.

Le ragioni che sottostanno a questa incidenza sono diverse:

  • Nelle società industrializzate la figura della donna è strettamente collegata alla sua immagine corporea;
  • Lo sviluppo psicosessuale femminile è diverso da quello maschile;
  • La donna per amore è disposta a rischiare tutto (anche alla sua stessa vita).

Mentre l’uomo può raggiungere la propria affermazione personale puntando sull’azione, sul potere, sulla forza e sull’avere, la donna moderna deve costantemente rapportarsi alla dimensione della bellezza e del corpo magro (visto come canone estetico dominante della società).

Per quanto riguarda lo sviluppo psicosessuale, per il bambino l’oggetto d’amore rimane sempre la figura femminile, incarnata inizialmente dalla madre mentre successivamente, grazie alla spinta paterna, si spingerà verso una figura esterna al nucleo familiare, ma che ricorderà il primo oggetto d’amore, ormai perduto.

Per la bambina, invece, lo sviluppo è molto più complicato perché l’oggetto d’amore deve subire un radicale cambiamento: se inizialmente coincide anche per lei con la madre, successivamente deve spostarsi verso il padre, dovendo quindi fare i conti con un cambiamento di genere della figura desiderata. 

La bambina assisterà a una netta separazione tra i due oggetti d’amore, e dovrà rinunciare all’amore materno e al suo sostegno narcisistico; si tratta di un lavoro del lutto, che se non portato a termine determinerà un rapporto irrisolto con la madre, e la ricerca continua di fusione con lei (ciò è spesso l’origine del disturbo anoressico-bulimico).

Infine, analizzando il comportamento femminile all’interno delle relazioni sentimentali assistiamo a una grande differenza rispetto a quello maschile: se la donna è disposta a sacrificare tutto (compreso il suo corpo e la sua vita) in nome dell’amore, l’uomo è più razionale e non è disposto a una rinuncia così grande in quanto è più orientato verso sentimenti di possesso, difesa e proprietà (l’uomo gode nell’avere). 

L’uomo pensa che per amare sia sufficiente donare ciò che si possiede, ma la donna rifiuta ciò, perché, per lei amare significa donare all’altro la propria mancanza. L’anoressica vuole poter mancare per far sentire all’altro il valore della sua esistenza, ma l’altro, ignaro di questa visione, risponde solo sul piano dell’avere, del possedere, delle cure e della soddisfazione dei bisogni primari; la speranza della donna è che così facendo, l’altro si veda costretto a eliminare la propria onnipotenza per accogliere l’angoscia, che lo costringe a offrire tutto se stesso per mantenerla in vita.

Quindi, uomini e donne sono radicalmente e profondamente diversi, perché, amano in modo diverso, soffrono in modo diverso, e quindi si rapportano al proprio corpo e al cibo in modo diverso. Sono le donne che estraggono dal cibo il suo significato di alimento per attribuirgli quello di relazione d’amore e sono ancora loro che creano una correlazione tra amore (qui inteso come la costellazione di tutte le relazioni affettive, familiari e non) e immagine del corpo-magro.

Nella società contemporanea, non si può negare che anche l’uomo inizia a dare maggior importanza al proprio apparire e al proprio aspetto fisico, tramite l’uso di cosmetici e creme, la pratica di diete, l’attenzione a ciò che si mangia, e ad un corpo scolpito dai muscoli, ma sicuramente, esso non si fa condizionare così profondamente come la donna, e non lascia nelle mani della propria bellezza, la possibilità di vivere sereno.

La donna vive un rapporto problematico col proprio corpo anche perché lo utilizza per esprimere il proprio malessere.
 

Una reazione di difesa

L’anoressia nervosa, così come la bulimia nervosa non sono altro che dei meccanismi di difesa che il soggetto pone davanti a sé per difendersi dal trauma che potrà derivare dalla relazione con l’altro. Ogni sua azione e reazione fanno parte di un piano predeterminato che le consente di raggiungere la perfezione  e il controllo assoluto ogni sua pulsione e ogni suo desiderio.

Il soggetto rifiuta il cibo e ricerca l’estrema magrezza per gridare la propria indipendenza e la propria volontà ad allontanare ogni possibile relazione affettiva con l’altro sesso.

Il problema è solo apparentemente alimentare, perché nel profondo vuole essere un messaggio riguardante l’amore: in assenza di un giusto comportamento d’amore (quando cioè l’uomo non dona la sua mancanza, ma dona solo ciò che già possiede), l’anima della donna soffre, e ciò viene espresso sul corpo-magro. 

Tale atteggiamento è tipicamente femminile perché è lei che ritiene esista uno stretto rapporto tra immagine del corpo e amabilità, tra desiderio maschile e bellezza; per essere amate, desiderate e apprezzate, bisogna essere belle, ma questa bellezza, secondo i canoni della società contemporanea, è caratterizzata dalla sola magrezza, che può portare alla malattia se diventa un dovere da raggiungere ad ogni costo.

La donna risente fortemente di tale imposizione, al punto che spesso si trova a vergognarsi o imbarazzarsi per il suo piacere nel mangiare e nell’apprezzare il cibo. 

La difficoltà che si può riscontare nel raggiungere questo ideale estetico, può causare una fragilità nel rapporto con il proprio corpo e coi suoi difetti, perché, se non si è magre, non si è belle e quindi non si è degne d’amore; si perde l’importanza dell’apprezzare ogni singolo corpo in quanto unico e particolare, per il solo desiderio di conformarsi alla magrezza e a ciò che chiede la società.

Se ne deduce che lo sviluppo di una tale malattia, non dipende esclusivamente dalla ricerca della magrezza (incentivata dai mass media), ma è causata soprattutto da come la persona (già avente una sofferenza interna inespressa) ascolta questa pressione sociale.
 

LA MALATTIA DELL’AMORE   

I disturbi di anoressia e bulimia nervosa sono in forte connessione con la società industrializzata attuale, dominata dal mito del consumo fine a se stesso e dal mito del corpo magro come idolo a cui sacrificare la propria vita.

Il soggetto bulimico rappresenta alla perfezione il mito del consumo per il consumo: ingoia e mastica tutto ciò che trova, ma proprio questo tutto, alla fine di ogni abbuffata, si rivela per la sua inconsistenza perché il consumo infinito di oggetti non è sufficiente a colmare il vuoto che prova.

Il soggetto anoressico, al contrario, rifiuta il mito del consumo e l’offerta dei beni dell’Altro (materno e sociale), orientandosi verso il culto narcisistico del corpo magro, un culto antisociale, privato e distruttivo.

Questi due miti incarnano i due imperativi sociali attuali, quelli del godimento a ogni costo e del valore assoluto attribuito all’immagine, entrambi caratterizzati dalla volontà di eliminare la mancanza.

La mancanza cerca di essere sconfitta anche dalla società di massa che, riempiendo di godimento il soggetto, vuole farlo sentire pieno (e senza nessuna mancanza), ma si dimentica che la mancanza è fondamentale per l’esistenza e la realizzazione creativa dell’essere umano; si moltiplicano all’infinito le offerte sociali, dando così l’illusione che ogni mancanza può essere facilmente risolta tramite un consumo, ma è proprio all’apice del consumo (es. alla fine dell’abbuffata) che il soggetto si scontra con la stessa insoddisfazione che sperimentava all’inizio. 

Da tali considerazioni risulta chiaro che i disturbi di anoressia e bulimia nervosa non sono solo disfunzioni comportamentali ma sono soprattutto disturbi relazionali (malattie dell’amore), nei quali il soggetto inizia a concentrare la propria attenzione solo al proprio Sé, escludendo ogni rapporto con l’Altro (possibile fonte di sofferenza). Se l’insorgenza può dipendere da un lutto, dalla perdita di un oggetto d’amore significativo o da una relazione amorosa andata male, il primo segno di guarigione può essere la riscoperta di un interesse libidico verso l’altro sesso (o in generale verso il mondo esterno) che spinge il soggetto ad abbassare le proprie barriere e i propri livelli di esclusione sociale.

Per meglio chiarire la definizione di anoressia e bulimia nervosa come malattie dell’amore, è bene ricordare una definizione dell’amore data da Lacan: l’amore è dare all’altro quello che non si ha; tale assunto parte dal presupposto che dare all’altro ciò che si possiede è molto semplice, soprattutto se lo si ha in abbondanza perché il soggetto nel donarlo non dovrà neanche privarsene, quindi non sentirà nessuna mancanza.

E’ per questa ragione che i disturbi alimentari non sono molto diffusi nei paesi dove il cibo scarseggia, perché, il cederlo ad un altro implicherebbe la privazione e il sentimento di mancanza nel soggetto che lo possedeva. 

Nelle società attuali, caratterizzate dal benessere e dallo sviluppo, invece, il cibo è presente in abbondanza (tanto da aver dato origine al disturbo dell’obesità, anche infantile) e quindi il suo cedimento non viene visto come un atto d’amore perché non implica nessuna privazione. L’anoressica rifiuta quindi il cibo perché non si accontenta che le venga dato qualcosa che l’Altro già possiede, non sta richiedendo un oggetto ma sta richiedendo che l’Altro le doni la sua mancanza (è una domanda d’amore); vuole insegnare all’Altro che il prendersi cura e il donare infinite cose non fanno l’amore, ed è disposta a nutrirsi del “niente” e a identificarsi con la malattia per far capire questo suo messaggio.

L’anoressia si basa su un continuo rapporto con l’Altro in una relazione ambigua: se da una parte è una modalità disperata messa in atto per separarsi dall’Altro, sul versante opposto rappresenta l’impossibilità a tollerare la sua mancanza. Il suo lamentarsi delle oppressioni dei genitori, dei parenti e degli amici, sono in realtà un modo per dire che senza di loro si sente il niente.

Malattia dell’amore indica perciò, proprio che la persona in virtù di questo amore è disposta a morire e a sacrificare la propria vita, cercando di annullare ogni suo desiderio e pulsione.

Quindi per curare la patologia bisogna partire non dal sintomo, ma dalla ricerca del desiderio, perché solo quando esso tornerà la persona riscoprirà la bellezza della vita e dei rapporti sociali, tornando a mangiare e a stare bene. 
 

ADOLESCENZA: L’ETÀ CRITICA

La diffusione dei disturbi del comportamento alimentare fra le adolescenti femmine delle società occidentali, ha assunto dimensioni di carattere epidemico; anoressia e bulimia nervosa, fino a non molti anni fa sindromi psichiche rare e serissime, oggi possono essere considerate disturbi evolutivi correlati alla fragilità narcisistica dell’adolescenza contemporanea e alla conflittuale integrazione dei valori dell’identità di genere nell’immagine si sé dell’adolescente femmina.

Ciò che ha reso questa fase di vita fertile per lo sviluppo dei disturbi alimentari è proprio la tenenza ad esteriorizzare la propria sofferenza psichica attraverso gli agiti comportamentali: l’esteriorizzazione del conflitto, consente all’adolescente di evitare un’elaborazione emotiva resa impossibile dall’incapacità di tollerare il dolore psichico e gli permette di scaricare la tensione emotiva nel gesto.

Chi, come il giovane adolescente, non è capace di esprimere i propri bisogni attraverso le parole e i pensieri, tramite il linguaggio del corpo può liberare un’insostenibile tensione emotiva.

L’adolescenza rappresenta un passaggio critico nello sviluppo di qualsiasi soggetto, a causa delle sue grandi trasformazioni psicofisiche; le ragazze, soprattutto, devono riuscire ad abituarsi e a fronteggiare ai mutamenti corporei, al cambiamento della propria immagina e allo sviluppo dei caratteri sessuali adulti (lo sviluppo della sessualità).

Con l’adolescenza iniziano anche le relazioni con l’altro sesso che portano con se alla scoperta dell’innamoramento e al timore di essere rifiutate e abbandonate; il rifiuto, può bloccare il proprio desiderio, creando rifiuto e sfiducia proprio nei confronti dell’altro e del proprio corpo.

L’amore quindi, questo sentimento nuovo e desiderato, può essere disertato perché fonte di frustrazione, di confronto brutale con l’immagine ideale della donna alla quale, nonostante tutti gli sforzi, non si riesce ad aderire; non è raro che una relazione finita male, rappresenti l’occasione per lo sviluppo del disturbo, le cui cause però vanno riscontrate nella ormai lontana infanzia.

Se durante l’infanzia il bambino dipende completamente dal caregiver (solitamente un genitore), il quale lo educa e lo cresce secondo il proprio narcisismo rinato, nella speranza di farlo diventare ciò che lui avrebbe voluto essere, durante la pubertà, si scopre il desiderio dell’incontro con l’altro sesso e quindi si fa sentire il bisogno della separazione progressiva dell’individuo dai legami infantili con i genitori. La separazione è una tappa fondamentale che, completandosi poi durante l’adolescenza, permette la definizione della sua identità (fondamentale per la stabilità psichica).

Con il sopraggiungere dell’adolescenza, infatti, il bambino ormai cresciuto rivendica la propria volontà e il proprio diritto di desiderare in proprio, di essere ciò che lui vuole: non agisce più per conformarsi all’immagine ideale che ha di lui il suo caregiver, non rimane più passivo davanti alla volontà dell’altro, ma rivendica in ogni modo il suo essere; come affronterà questa fase, dipende molto dalla posizione che ha ricoperto durante l’infanzia all’interno della sua famiglia.

Spesso la storia di una paziente anoressica è quella di una brava bambina, che compiaceva sempre i genitori, che diceva sempre “si” per essere ben accettata e che con la crescita si è trasformata del suo contrario, una ragazza sempre pronta a contestare il volere genitoriale.

Questo atteggiamento si spiega nel bisogno dell’adolescente di separarsi dall’altro e di far valere la propria singolarità e la propria voce, portando, a volte, al gesto estremo del rifiuto anoressico che rompe ogni immagine dei genitori per esprimere il proprio desiderio e la propria unicità; è la volontà di negare ogni forma di dipendenza, ribaltando i rapporti di forza tra lui e i suoi genitori, in quanto grazie al rifiuto del cibo si sente di assumere una posizione di potere (e non più di dipendenza, come nell’infanzia).

L’atteggiamento anoressico è un ricatto mortale rivolto al proprio genitore: il cibo viene rifiutato per sfidarlo, provocarlo, angosciarlo e farlo sentire impotente (come si sente un bambino) davanti al corpo di un figlio che si consuma ogni giorno di più e che non risponde a nessun suo gesto.

I genitori sono così costretti a dover elaborare una perdita di potere sul proprio figlio, cercando anche di trattenere dentro di sé la loro angoscia davanti a questa situazione.   
 

Il punto di vista psicosociale

Inquadrare in termini di psicologia evolutiva un fenomeno in cui è determinante il peso dei fattori socioculturali, significa prestare attenzione alla cultura affettiva familiare e sociale nel cui ambito questo fenomeno ha avuto una diffusione esponenziale.

La diffusione femminile del disturbo compare solo nella pubertà, il che conferma la correlazione con la costruzione dell’identità di genere femminile.

In passato, la forma restrittiva di anoressia nervosa era più frequente di quella bulimica, oggi è vero il contrario; anoressia restrittiva e bulimia tendono comunque ad alternarsi in epoche diverse della vita di una stessa persona.

Nella diffusione dei disturbi del comportamento alimentare s’intrecciano fattori individuali, quali l’adolescenza e la femminilità, e fattori psicosociali, espressioni dei modelli culturali e relazionali della famiglia e della società contemporanea.

Ricerche recenti rilevano una maggior presenza di queste patologie fra le danzatrici e le adolescenti che praticano sport agonistici in cui la magrezza è considerata un fattore di successo (per es. ginnastica artistica, pattinaggio e atletica), rispetto non solo alla popolazione delle coetanee, ma anche alle ragazze che praticano altri tipi di sport.

Nella società occidentale, inoltre, l’immagine di sé e la costruzione dell’identità personale e di genere dell’adolescente femmina, sono i fattori centrali nei disturbi alimentari; il disturbo alimentare rivela la contraddizione dell’identità femminile contemporanea e segnala le difficoltà a fronteggiare le richieste evolutive della giovane ragazza.

Anoressiche e bulimiche esprimono quindi con il corpo il disagio dell’adolescenza femminile attuale, incarnando il modello di una femminilità intellettualizzata e disincarnata, e utilizzando il rifiuto del cibo (o la dieta restrittiva) per dimostrare la sottomissione della mente al corpo. C’è un’imposizione di silenzio rivolta al corpo, che diventa ricettacolo di un’impulsività disprezzata ed emblema di un destino femminile materno rifiutato. Tutto ciò viene portato a compimento tramite l’assunzione dei valori della cultura estetica e con la volontà di raggiungere un corpo magro, disincarnato, atletico ed efficiente.

 

Il ruolo della famiglia

La famiglia riverse un ruolo molto importante nella vita di qualsiasi persona, fin dal primo momento di vita, e questo perché ogni esperienza vissuta al suo interno, inciderà profondamente sullo sviluppo psichico e sulla possibilità di identificarsi col proprio sesso; c’è una stretta relazione, infatti, tra esperienza familiare e sviluppo della propria identità sessuale. 

Nell’anoressica-bulimica, il problema risiede proprio nella difficoltà (se non impossibilità) di accesso alla propria sessualità femminile; è giusto quindi indagare, oltre che la specifica struttura psichica del soggetto, anche la sua storia familiare, il suo rapporto tra e con i genitori, il legame con fratelli/sorelle, la posizione cronologica della sua nascita, etc.. Tutte queste informazioni ci permetteranno di avere un quadro complessivo e allargato della persona, che sarà molto utile per individuare le cause e il tipo di trattamento più adeguato.

L’uomo è parte di un sistema sociale e culturale fondato su norme e regole che vengono apprese all’interno della vita familiare, e quindi è solo grazie alla relazione con l’altro e al sistema di cura ricevuto alla nascita, che si andrà a formare il proprio essere e la propria identità; le cure genitoriali, nello specifico, rivestono un ruolo decisivo nello sviluppo psichico, perché, il bambino non chiede solo di essere nutrito ma anche, e soprattutto, di essere amato, riconosciuto e accettato per la sua particolarità e unicità (con i suoi pregi e i suoi difetti).

La madre dunque, deve essere capace di trasmettere al figlio due doni: il suo seno, per nutrirsi, e un segno d’amore, che gli comunichi l’importanza e l’amore per tutto ciò che lui rappresenta ed è; l’incapacità materna di donare questo segno d’amore, comporterà per il bambino la possibilità di godere solo della nutrizione e quindi l’impossibilità di apprendere e conoscere il valore che l’Altro ci attribuisce (sviluppo psicologico, autostima e rapporto col proprio corpo e sesso, saranno compromessi).

L’anoressica-bulimica mette in mostra la grande differenza tra il nutrire e l’amare, sottolineando l’importanza dell’Altro come capace di donare un segno d’amore; il rifiuto del cibo, infatti, rappresenta la manifestazione del rifiuto della fiducia nell’Altro, che ha fallito nel suo compito d’amore; è un rifiuto al rapporto sociale, fonte solo di trauma e sofferenza; è una difesa dai rischi del legame con l’Altro, che potrebbe tradirci, ferirci o deluderci. 

Il corpo magro è un grido disperato, è una richiesta di attenzione all’Altro, che fino a quel momento non è stato in grado di essere presente nel giusto modo, ma è anche fonte di messaggi contradditori: chiede di essere visto ma contemporaneamente tiene tutti lontani, chiede all’Altro di essere amato ma senza essere capace di amare.

Il problema maggiore però, è che l’uomo è per sua natura un essere sociale, e quindi il legame con l’Altro è essenziale alla vita, perché, tutti dipendiamo dalle cure e dall’amore dell’Altro; l’anoressica deve prender atto che, nonostante la sua capacità estrema di controllare il proprio corpo, per vivere ha bisogno dell’Altro.

L’anoressia rappresenta un attacco al corpo come mezzo di protezione dal male: l’Altro mi ha fatto soffrire e ora io lo angoscio col mio corpo ridotto a scheletro.

Parlando della relazione con l’Altro, si fa riferimento anche alla famiglia d’origine e ai genitori che, davanti a una malattia che consuma il corpo della propria figlia, provano disperazione, impotenza e angoscia, perché, si sentono loro stessi rifiutati. Ciò provocherà l’inizio di estenuanti bracci di ferro fra madri, decise a nutrire ad ogni costo la propria figlia, e figlie, altrettanto determinate a far sentire il proprio potere attraverso il rifiuto, il tutto davanti allo sguardo di un padre spesso terrorizzato, che cercherò in vari modi di intervenire o di sottrarsi a tali dinamiche.

I genitori sono disorientati davanti a questa situazione, perché, ogni loro azione comporta un peggioramento della malattia e proprio per questo, sono spesso loro i primi a chiedere aiuto (prima ancora della figlia malata); viene portato all’attenzione medica il problema della figlia con la convinzione che riguardi solo lei, con l’inconsapevolezza che il suo sintomo implica il coinvolgimento dell’intero sistema delle relazioni familiari. 

I genitori chiedono una cura solo per il sintomo della figlia, deresponsabilizzandosi ed escludendosi dal percorso terapeutico, quindi, l’intervento specialistico, dovrebbe porsi come primo obiettivo quello di condurre ciascun familiare a riconoscere la loro parte nella sofferenza della figlia, sofferenza che può anche essere una modalità messa in atto per nascondere eventuali disagi nella coppia o in un coniuge; soggettivando la domanda sarà possibile una presa di coscienza.

L’origine della malattia, inoltre, può essere anche rintracciata all’interno di una disturbata relazione madre-figlia, caratterizzata da una eccessiva presenza materna che soffoca il soggetto, oppure da una totale assenza che crea sentimenti di abbandono e svalutazione. 

Ovviamente tali affermazioni non vogliono significare che il comportamento materno è la sola e unica spiegazione della patologia della figlia perché la madre, oltre che essere madre della figlia, è anche moglie e donna (con le sue passioni e i suoi desideri) e quindi il suo essere dipende anche dai diversi rapporti sociali che ha instaurato (non ultimo il rapporto col proprio uomo). 

Il disturbo alimentare compare nell’ambito della famiglia borghese del diciannovesimo secolo, caratterizzata dalla posizione dominante del padre, sostegno economico della famiglia, dalla funzione domestica della moglie-madre e dalla posizione centrale del bambino nella vita affettiva familiare.

I tratti che accomunano la maggior parte delle famiglie in cui è presente un disturbo alimentare sono i seguenti:

  • Una cultura affettiva fortemente orientata al successo, con cui i genitori compensano vissuti inconsci di mancanza e inadeguatezza;
  • Labili confini fra individui e generazioni, che comportano continue intrusioni negli spazi fisici e psico-emotivi dei singoli, riducendo ogni ambito privato e autonomo: la famiglia si presenta come un amalgama indifferenziato, che il processo di separazione-individuazione adolescenziale mette in crisi;
  • Tendenza all’evitamento dei conflitti, non per assenza di tensioni conflittuali ma per la tendenza a non esplicitarle e a non dar loro soluzioni che possono favorire i processi di identificazione.

La fusione e la scarsa differenziazione  fra i membri, la mancanza di intimità ed autonomia dei singoli e l’impossibilità ad esprimere tensioni e conflitti, determinano un codice familiare governato da norme rigide e relazioni artificiali.

I conflitti vengono evitati attraverso la mancata imposizione del limite e la parentificazione dei figli, cui viene assegnato il compito di rassicurare i genitori circa le competenze parentali, mantenendo un comportamento sempre adeguato, che li aiuti a contrastare il vissuto di depressione e svalutazione di sé.

Le famiglie anoressiche sono descritte come nuclei fortemente controllati, timorosi del conflitto e alla ricerca di un’apparenza perfetta, mentre le storie familiari delle bulimiche presentano scenari conflittuali più aperti e dinamiche più burrascose.

Un genitore dotato di scarsa empatia, oscilla tra la confusione emotiva e l’incoerenza comportamentale da un lato, e tentativi di difendersene tramite l’imposizione di norme rigide e d’adeguamenti passivi a modelli sociali conformisti dall’altro, alla ricerca di continue conferme esterne di cui in figli si fanno promotori. 

Le madri di ragazze anoressiche sono descritte come poco affettuose, dominate dal senso del dovere, angosciate dall’idea di non essere buone madri, depresse, ansiose, fragili e insoddisfatte; la loro dedizione al dovere le rende sempre pronte a rispondere ai bisogni fisici delle figlie, ma incapaci di avere un contatto empatico ed affettivo con loro. 

Tali madri vengono anche definite incassatrici di umiliazioni fin dalla famiglia d’origine, dove i privilegi concessi ai figli maschi hanno alimentato i suoi vissuti di inadeguatezza. 

Sono donne il cui sacrifico delle ambizioni di successo personale per la famiglia (attuale e d’origine), ha provocato sentimenti di rancore e delusione, che alimentano il bisogno di essere nutrite dalla bellezza e dai successi scolastici e sportivi della figlia; ciò contribuisce ad alimentare un fantasma materno avido, divorante e fagocitante.

La funzione paterna è qui troppo debole e inefficace per porre un limite al cannibalismo materno, e finisce per ritrarsi dalla relazione offrendo in cambio la figlia, che diventa così oggetto del desiderio materno; i bisogni femminili sono soppiantati da quelli materni, il desiderio femminile viene assorbito da quello materno.

In questa prospettiva l’intensità del rapporto fra la madre e la figlia e il rifiuto a concedere spazi d’autonomia alla figlia, vanno interpretati considerando la delusione della madre rispetto al rapporto di coppia: l’assenza o l’esclusione del padre inducono la madre a rivolgersi verso la figlia per soddisfare i propri bisogni.

I padri, esigenti nelle richieste di riuscita scolastica e professionale, sono invece rinunciatari nell’assunzione della funzione paterna: esclusi dal rapporto madre-figlia, o accettano di essere tenuti in disparte, o entrano in competizione con il ruolo materno, oppure tendono ad instaurare relazioni privilegiate di marca seduttiva con la figlia. 

Non di rado i padri cercano nella figlia il sostegno emotivo che non trovano nel matrimonio, per poi abbandonarle emotivamente quando ne sono delusi; tali uomini hanno spesso vissuto carenze e deprivazioni, alle quali hanno risposto tramite un’autonomizzazione precoce, fondata sulla negazione del bisogno, che gli ha comunque permesso di riscuotere molti successi sul piano sociale e professionale, rimanendo chiusi sul piano affettivo.

Tutti tendono ad instaurare rapporti di coppia caratterizzati dall’assoluto adeguamento della moglie ai loro bisogni, cercando in essa un sostituto materno affettuoso e disponibile, dalla quale però si sottraggono ad ogni richiesta di rapporto.

Le intrusioni della famiglia d’origine e i bisogni dei figli introducono ulteriori elementi di conflittualità in questo equilibrio: il marito toglie alla moglie la stima, mentre lei gli nega la disponibilità affettiva.

L’attacco perpetrato dalla figlia al proprio corpo, motivo d’orgoglio e qualche volta oggetto di fantasie erotiche inconsce, è per il padre particolarmente doloroso; egli può reagire con l’irritazione e il ritiro, rifugiandosi nel lavoro, oppure può sostituirsi alla madre, maternalizzandosi ed entrando in competizione con lei, finendo per lasciarsi manipolare e prestando senza limiti tempo ed attenzione alla figlia (entrando in conflitto con la moglie/madre). In questo senso la carenza della funzione paterna non è assenza reale, ma simbolica, cui la madre contribuisce demolendo e disconfermando sistematicamente le regole e i valori paterni.

Quindi l’identificazione fallica presente nelle anoressiche rappresenta un tentativo di supplire alle debolezze della funzione paterna per separarsi dalla madre; la figlia che vuole aspirare ad un ideale maschile, spesso si sente vincolata ad aspettative paterne e desidera differenziarsi dal modello rappresentato dalla madre.

La fragilità narcisistica e le esperienze di mortificazione delle madri, unite alle esperienze traumatiche di carenza e deprivazione affettiva dei padri, rischiano di trasformare la relazione coniugale nel legame fra una madre sacrificale e un bambino onnipotente, annullando così la dimensione erotica dello scambio.

La difficoltà ad integrare l’identità di genere nell’identità personale accomuna a livello transgenerazionale le ragazze anoressiche e i loro genitori, rappresentando un cardine del romanzo familiare: l’iscrizione scissa della femminilità e della maternità nel mondo interno dell’anoressica trova conferma nella configurazione relazionale di coppia dei suoi genitori, in cui i reciproci bisogni infantili insaturi, di riconoscimento nelle madri e d’accudimento nei padri, trasformano la coppia coniugale in una coppia genitore/figlio. 

La duplice versione del padre assente, idealizzato o screditato, e del padre maternalizzato, doppio della madre vendicativamente impegnato a denunciarne i limiti, ostacola l’introiezione di una funzione paterna differenziante, capace di sostenere il limite, la separazione e la regola.
 

Il complesso di Edipo come causa del disturbo alimentare 

Il complesso di Edipo permette di spiegare il tipo di rapporto che lega la madre al proprio figlio, infatti, per quest’ultimo, la figura materna rappresenta il completamento della mancanza che si è verificata in seguito alla nascita, che ha causato la rottura di un legame col corpo materno: durante la vita intrauterina siamo un tutt’uno con chi ci sviluppa, ma durante la nascita si rompe questa unità e dobbiamo affrontare la separazione e quindi il trauma con questo corpo che ci ha creati.

La nascita, nonostante sia un’esperienza grandiosa ed emozionante, crea dolore sia al bambino che alla madre: per il primo c’è la paura di perdere colei a cui ora è completamente dipendente, mentre per la seconda, c’è la perdita di completezza che la gravidanza gli conferiva.

La prima fase del complesso di Edipo è rappresentata proprio dalla madre che, per ridurre il vuoto scaturito dal parto, dedica ogni sua energia alla cura e alla protezione del nascituro.

Nella seconda fase, invece, viene coinvolto il padre, che ha il compito di rompere questo legame esclusivo e togliere il figlio dalla posizione di identificazione con l’oggetto che manca alla madre; madre che, al contrario, vuole trattenere per sempre con sé il figlio, senza separarsene mai.

Affinché il padre riesca nel suo intento però, è necessario che ami e desideri la donna che ha reso madre, e che contemporaneamente, lei si senta anche la donna del padre, individuando in lui l’uomo che ama e desidera.

Il ruolo del padre comporta una “castrazione simbolica”, che per il bambino implica l’impossibilità di colmare la mancanza materna, mentre per la madre implica l’accettazione di non contenere più il corpo del proprio figlio.

Quando la madre ama il marito, e quando quest’ultimo desidera la propria moglie, ecco che è possibile attuare la separazione della coppia madre-figlio, permettendo anche al bambino di poter sperimentare il desiderio e l’amore al di fuori della madre; nelle situazioni in cui il padre è assente (per es. separazioni o scomparsa), la madre deve poter contare su qualcosa che le permetta di attuare la separazione dal figlio.

Affinché inoltre il bambino possa riconoscere l’autorità e la figura simbolica del padre, è necessario che la madre parli di lui in maniera amorevole, perché sarà proprio tramite le sue parole che il figlio lo conoscerà.

Proprio in merito a queste considerazioni sul triangolo Edipico (madre-padre-figlio), si nota che un cattivo funzionamento della figura paterna può dare origine al disturbo anoressico-bulimico.

La funzione simbolica del padre può essere alterata in diversi modi: il padre non ama la madre, la madre ha come unico oggetto d’amore la figlia, la madre non riconosce al padre dignità maschile (espellendolo dalla famiglia o attribuendogli connotati negativi), il padre fa della figlia la sua fidanzata ideale (privandola della libertà e del desiderio, fondamentali per lo sviluppo dell’identità della figlia), oppure il padre la ignora, dimostrandosi distante e coinvolto esclusivamente dalle sue faccende personali. 

La figlia quindi, può sperimentare sofferenza a causa dell’abbandono o, al contrario, del soffocamento causato dai genitori; in entrambi i casi, l’anoressia-bulimia, può diventare per lei una soluzione necessaria per preservare la soggettività, che viene conservata tramite il senso di autostima che scaturisce dal rifiuto del cibo. 

La letteratura evidenzia numerose storie di persone che dietro ad un rapporto problematico col cibo nascondono un padre distante o troppo presente: l’anoressia può essere è un grido contro il padre, un padre che si vuole richiamare a sé o dal quale si vuole scappare.

Oltre al rapporto col padre, l’anoressia può anche essere una reazione di separazione dalla madre quando il privato della figlia è stato abolito, per sostituirsi con una totale invadenza materna, pronta a scaricare su di lei ogni suo comportamento sregolato, oppure quando una madre rinuncia ad ogni suo desiderio di donna, riempiendo tutto il suo essere nella funzione materna e nutrendo col cibo e con la sua presenza ogni vuoto della figlia, per trattenerla a sé come unica fonte di soddisfazione.

La risposta anoressica-bulimica quindi comporta una separazione tra la madre e la figlia, in assenza di una figura paterna capace di compiere la sua funzione simbolica di regolazione e può causare anche l’amenorrea, come somatizzazione che indica il rifiuto maternità (rifiuto della relazione con l’elemento materno).

Quindi un cattivo funzionamento del padre, che non si istituisce come oggetto d’amore della madre, e che la figlia non riesce ad elevare a oggetto d’amore significativo, renderà difficoltosa l’elaborazione del lutto della figlia (conseguente alla separazione materna), aumentando il rischio di malattia. 

Ciò si verifica perché, è vero che sia per il maschio che per la femmina, il primo oggetto d’amore è la mamma, ma mentre nell’Edipo maschile l’interdizione paterna al godimento della madre spinge il maschio a orientare il suo desiderio verso un oggetto dello stesso sesso della madre, per la femmina la scelta d’amore deve ricadere su un oggetto di sesso opposto a quello materno: il padre. Solo il padre permetterà alla figlia, tramite la delusione del desiderio edipico di avere un figlio da lui, l’accesso all’amore e alla maternità che si compierà durante il corso della vita con un uomo, al di fuori dello scenario edipico.

Tutte le considerazioni appena fatte, mettono anche in luce che l’adolescenza è l’età critica per le anoressiche-bulimiche, perché, è proprio in questo momento che tutte le difficoltà iniziate nell’infanzia, sfociano in malattia. 

Durante l’infanzia, infatti, si verifica una sospensione della femminilità, perché, a causa di una fissazione della figlia in una posizione regressiva verso la madre, ed un padre che non ha intenzione di intervenire (e di rendere possibile la separazione), non si verifica nessuna separazione simbolica. In questa fase di vita, tutto il rapporto madre-figlia ruota intorno al corpo materno e ai suoi tratti femminili, che consentono alla figlia di identificarsi con essi e di trarre insegnamento sul significato di essere donna; la madre deve essere un modello, deve saper trasmettere un’immagine di femminilità non annichilita, stando attenda a non generare una rivalità tra le due generazioni.

L’incapacità materna di essere questa guida però, comporta la presa di coscienza, nella giovane donna adolescente, dell’impossibilità di poter affrontare da sola il lavoro di soggettivazione del proprio corpo sessuato e della propria immagine.
 

OBESITA’: CARATTERISTICHE DIAGNOSTICHE

L’obesità è una malattia cronica, tipica della società contemporanea che, con uno spazio saturo di cose e ricco di oggetti di godimento pronti all’uso, impediscono la mancanza come fonte di desiderio e di creazione; l’obesità nasce proprio dall’intasamento della mancanza.

Non è solo un disturbo, ma rappresenta anche uno stile di vita, una modalità di difesa con cui il soggetto si mostra al mondo, anche se non sempre consapevolmente .

L’obesità, ma anche il sovrappeso, riguarda l’atto del nutrirsi, un atto universale di per sé innocuo e vitale che, nella forma contemporanea acquista una valenza autodistruttiva. L’atto del nutrirsi, oltre ad avere implicazioni caloriche, e quindi nutritive, è anche un’attività simbolica, che considera il corpo un mezzo di relazione, espressione e comunicazione.

Lo stretto legame esistente tra psiche e corpo permette l’espressione somatica dei disagi psicologici e questo, perché, le emozioni e i contenuti psichici (di qualsiasi natura) possono convertirsi in sintomi e manifestazioni del corpo.

Anche l’obesità può quindi essere letta come una manifestazione di un disagio psichico che ha trovato la via del corpo e della fame in eccesso per esprimersi, e per questo necessita di una interpretazione psicologica che aiuti a comprenderne le cause, dando dignità e parola alla sofferenza, collocandola all’interno dello sviluppo della persona e della sua famiglia. 

Una delle caratteristiche principali di questa condizione sono gli attacchi di fame, messi in atto non per un reale bisogno nutritivo ma per una modalità con cui ci si è abituati a rapportarsi col cibo; il paziente obeso, può essere spinto a mangiare per soddisfare dei propri bisogni interni: colmare un grosso vuoto affettivo, placare l’ansia, ridurre lo stress o impedire di dire cose sbagliate e dannose. Il soggetto non è più capace di riconoscere la fame ed il senso di sazietà, e finisce per confonderli con i propri stati emotivi: il cibo gli permette di rispondere alle emozioni e alle sensazioni negative.

La persona obesa tende ad avere bassa autostima, identità deficitaria, fragilità psichica, difficoltà a distinguere le emozioni e nell’utilizzo del linguaggio simbolico. 

Il cibo diventa il mezzo di comunicazione e di immediato compenso per gli stati ansiosi e di disagio, che col tempo assumerà anche tratti distruttivi e di difesa.

La comprensione di questa tipologia di soggetti deve partire dall’analisi dei sintomi e quindi dei vantaggi e dagli svantaggi interiori e sociali che ne derivano per chi attua un simile comportamento. 
 

SINTOMI, SEGNI E RISCHI

Avere molti chili di troppo comporta una serie di conseguenze a breve e a medio-lungo termine.

Le persone obese nella vita di tutti i giorni presentano affanno, anche compiendo attività fisica di bassa intensità, sudano profusamente, hanno disturbi del sonno e russano (questa condizione è chiamata sindrome delle apnee notturne, che comporta una scarsa ossigenazione del sangue anche per lunghi periodi durante il sonno notturno e aumenta il rischio di ipertensione e malattie cardiovascolari, quali ictus e infarto), hanno sonnolenza diurna e problemi alle articolazioni (dolori alla schiena, alle ginocchia e alle anche).

Inoltre frequentemente i soggetti obesi autolimitano la loro vita sociale, hanno problemi della sfera psicologica, quali bassa autostima, che possono sfociare nella depressione.

A lungo termine l’obesità comporta un aumentato rischio di sviluppare ipertensione arteriosa, e quindi accidenti cardio-vascolari,  diabete di tipo 2 e tumori.

L’obesità è una patologia associata ad elevata mortalità e da sola può far aumentare l’insorgenza di diverse patologie, tra le quali: ictus, patologie respiratorie, calcoli alla cistifellea, osteoartrosi, iperuricemia e gotta, diabete, malattie cardiovascolari, alterazioni ormonali e cancro.

Oltre a queste malattie puramente fisiche, non vanno dimenticati i gravi disagi psicologici ad essa connessa: isolamento sociale, diminuzione dell’attività sessuale, diminuzione dell’autostima, depressione e ansia.
 

L’AMBIENTE OBESOGENO

La società contemporanea è profondamente cambiata rispetto a quella del passato, infatti, oggi assistiamo sempre di più al fenomeno delle diete (accompagnato dall’esigenza di ridurre il peso corporeo), delle trasmissioni di cucina e delle pubblicazioni di libri sul cibo, che condizionano il discorso sociale.

Questa situazione però, da anche origine ad un contrasto: se da un lato viene promossa la cura e la maggior attenzione per una corretta e sana alimentazione, promuovendo la diminuzione e la moderazione del peso, dall’altro si offrono metodi e soluzioni concrete per reintrodurre tutte le calorie precedentemente perse.

E’ un discorso sociale che si inserisce perfettamente nella logica della società consumistica attuale, che prima crea il vuoto ed il bisogno e successivamente offre sistemi di riempimento, attraverso oggetti di consumo.

L’aumento dell’obesità è un fattore determinato da un ambiente obesogeno, che favorisce l’obesità: iperproduzione e commercializzazione di cibi grassi e ricchi di zuccheri, sostanze chimiche obesogene, stile di vita che sfavorisce il movimento fisico, riduzione dei lavori pesanti, uso di mezzi pubblici o della macchina per spostarsi e ore strascorse davanti alla televisione e al computer.

Anche modificando ognuno di questi fattori esterni all’individuo però, una variabile che incide fortemente sul soggetto è la sua psiche, infatti, senza una considerazione alle dinamiche psicologiche, nessuna dieta sarà capace di ridurre la massa grassa.

Quindi affinché sia possibile un vero dimagrimento è necessario unire alla dieta, al movimento fisico e al cambiamento di stile di vita, anche una modifica interna delle condizioni psichiche che hanno favorito il sopraggiungere della patologia.

Il mangiare quindi è un fatto che sta al confine tra la natura e la cultura, perché, i modi di nutrirsi sono in grado di dire qualcosa di importante non solo sui modi di vita, ma anche sulla struttura di una società e sulle regole che consentono ad essa di persistere e di sfidare il tempo.

L’atto del nutrirsi è sempre stato regolato da rituali collettivi religiosi o civili, in cui il pasto rappresentava un momento di condivisione, e non solo semplice nutrimento per il corpo; il mangiare implicava il significato della condivisione, dell’ospitalità e del dono.

Attualmente, la riunione intorno alla tavola ha cambiato di significato, assumendo solo quello della semplice nutrizione, che ha visto così perdere il vero e profondo significato dell’alimentazione, ossia quello di uno scambio emotivo e affettivo. 

I ritmi lavorativi serrati, la lontananza dal posto di lavoro, i diversi impegni sociali, la distrazione della televisione, uniti ad altri fattori, hanno contribuito a far perdere il significato e l’importanza delle riunioni familiari durante l’atto del nutrimento.

Purtroppo, nelle principali proposte di cura odierne dell’obesità, prevale un modello volto alla compensazione del deficit fisico, e non tanto all’indagine della dinamica psichica interna del soggetto e del suo contesto di vita familiare e sociale: si da estrema importanza alla quantità del cibo, sottovalutando la mente del paziente.
 

IL GRASSO COME BARRIERA

Molti casi di obesità grave rappresentano una soluzione estrema che il soggetto attua inconsciamente, per proteggersi dall’angoscia di sentirsi crollare.

Il corpo diventa una barriera che protegge proprio dalla paura di andare a pezzi, così che diventa necessario mantenere un peso elevato, tanto che ogni segnale di dimagrimento è un segnale di caduta dell’Io: più il corpo è grasso, più è considerata salda la propria identità.

Siamo davanti a una condizione di dipendenza (vista come soluzione sintomatica di fronte al timore di un crollo psichico), nella quale il soggetto, identificandosi col soggetto obeso, si assicura un’identità riconosciuta che, seppure posticcia, conserva un contatto con la realtà. 

Il grasso del corpo protegge l’individuo dall’angoscia che il suo immaginario trascenda sulla realtà, proteggendolo dalla possibilità di impazzire e di confondere la realtà con la fantasia; è una soluzione che vieta che l’angoscia lo invada senza possibilità di contenimento mentale.

Il cibo, allo stesso modo di un farmaco, fornisce una stabilizzazione identitaria ed umorale, che li rende accettabili dal gruppo e gli permette, apparentemente, di non vivere come essere angosciato.

Con questa situazione, la prima cosa da fare, prima di procedere con la dieta, è capire quale sia il disturbo psicopatologico sottostante, tramite una valutazione della funzione che la fame in eccesso ed il corpo grasso rivestano per la persona; Il rischio infatti, è che la diminuzione di peso scateni e slatentizzi fenomeni clinici depressivi o deliranti, che possano risultare imprevedibili.

Esistono comunque anche situazioni nelle quali l’obesità non riesce ad arginare il disagio affettivo e l’angoscia, dando origine a veri e propri disturbi psicotici.

La massa adiposa, così soffice quanto ingombrante, attira su di sé lo sguardo delle altre persone, in quanto, nella società contemporanea orientata all’estetica, il corpo grasso viene visto come un esibizionismo della bruttezza; ma è proprio l’attenzione dell’altro che vuole ottenere la persona obesa, perché ciò, gli permette di non sentirsi mai solo.

Un fenomeno importante che ha contribuito allo sviluppo dell’obesità anche in giovane età è rappresentato da  una riduzione del periodo di latenza (un periodo di mezzo tra l’infanzia e l’adolescenza che permette al bambino, di sviluppare una propria inclinazione e di poter esplorare il mondo, senza essere condizionati dalle spinte della sessualità adulta) che, causando un anticipo della pubertà, catapulta il bambino all’interno di un mondo sessualmente  maturo, dal quale può venir anche spaventato.

L’incapacità di far fronte all’emergenza di questa sessualità può determinare l’attivazione di meccanismi difensivi sul corpo, luogo in cui essa agisce. 

Secondo tale logica, il grasso della bambina può essere letto come un desiderio di nascondere le forme e i simboli della sessualità femminile più adulta, a cui non si è psicologicamente preparati. Anche in questo caso si vuole comunque richiamare la presenza dell’Altro, ma con uno sguardo pre-genitale e non sessuato.

Il soggetto di protegge dalla sessualità e ingrassare è un modo per porre fine al gioco della sessualità.

Un caso a parte coinvolge le situazioni in cui il corpo grasso è segno di un’antica violenza sessuale che il bambino ha subito; infatti il grasso è un sintomo che permette al piccolo di nascondersi e proteggersi dagli sguardi sessualizzati che lo hanno precedentemente disturbato e violato.
 

DIAGNOSI E TRATTAMENTO

L’obesità è correlata ad un alto rischio di mortalità e morbilità, quindi la cura deve svolgersi prendendo in carico il paziente con un approccio interdisciplinare (medico, psicologo, dietologo, anestesista, endocrinologo, cardiologo, pneumologo e radiologo), che consideri la globalità dei suoi bisogni da un punto di vista organico, psicologico, relazionale, familiare e sociale.

Un approccio multidisciplinare facilita il miglioramento dell’individuo in una prospettiva bio-psico-sociale, consentendogli di acquisire la sicurezza e la motivazione necessarie per modificare le sue abitudini alimentari, raggiungendo così obiettivi stabili e soddisfacenti.

La diagnosi viene fatta mediante il calcolo dell’indice di massa corporea (BMI), che è il risultato del rapporto tra il peso espresso in kg e l’altezza espressa in metri²; tale indice permette di fare diagnosi di sovrappeso e obesità, ma non dà informazioni sulla distribuzione, né sull’esatta quantità del grasso corporeo (un culturista può avere un IMC molto elevato pur non essendo obeso; un anziano con scarsa massa muscolare può avere un eccesso di grasso corporeo pur presentando un IMC nel range di normalità).

CLASSIFICAZIONE

  • sottopeso (IMC al di sotto di 19)
  • medio (IMC compreso tra 19 e 24)
  • sovrappeso (IMC compreso tra 25 e 30)
  • obesità (IMC al di sopra di 30)

 

L’efficacia di un trattamento a lungo termine richiede la motivazione del paziente a perdere peso, il porsi obiettivi realistici, e il cambiamento dello stile di vita; inoltre risulta utile la combinazione di una dieta ipolipidica e una moderata attività fisica con le terapie farmacologiche, chirurgiche e psicologiche che seguano il soggetto in tutto il suo percorso di trasformazione.

Nella presa in carico del paziente obeso, si possono predisporre anche dei follow-up, ossia dei controlli ambulatoriali dilazionati nel tempo, che hanno l’obiettivo di rassicurare il paziente e di ricordargli che non è solo, ma ha attorno a sé persone qualificate, pronte ad accogliere ogni sua richiesta d’aiuto.
 

Breve cenno della terapia farmacologica

I farmaci assunti possono essere ad attività centrale o periferica.

I primi, comunemente noti come anoressizzanti, agiscono come soppressori dell’apparato a livello del Sistema Nervoso Centrale, potenziando gli effetti di alcuni neuromediatori.

I secondi, invece, agiscono a livello intestinale (vengono assunti con il cibo) e permettono di inibire l’enzima lipasi, prevenendo così la digestione dei trigliceridi; l’inibizione non riesce comunque ad ottenere una totale digestione dei trigliceridi ma, quelli non digeriti, vengono comunque eliminati con le feci (riducendo così l’assorbimento dietetico di grassi e calorie).
 

Breve cenno alla terapia chirurgica

L’intervento chirurgico è necessario nei casi di grande obesità, quando cioè, la dieta, l’esercizio fisico, i farmaci e la psicoterapia da sole non riuscirebbero a ottenere un buon risultato.

Gli interventi di distinguono in tre tipologie:

1- Interventi restrittivi: riducono il volume dello stomaco, mantenendo il naturale percorso alimentare (si crea una tasca gastrica che permette di raggiungere prima il senso di sazietà, riducendo così la quantità di cibo ingerita):

  • Pallone intragastrico;
  • Bendaggio Gastrico Regolabile: dispositivo biocompatibile con una camera che può essere gonfiato o sgonfiato, e che viene posizionato tra lo stomaco e l’esofago, permettendo così di rallentare il passaggio di cibo;
  • Sleeve gastrectomy: intervento gastrorestrittivo che riduce la capacità dello stomaco e la conseguente possibilità di assumere cibo.

2- Interventi metabolici o funzionali: riducono il volume dello stomaco e modificano il naturale percorso alimentare (si riduce il tratto intestinale):

  • By Pass Gastrico: intervento reversibile anatomicamente perché non prevede l’asportazione di alcuna parte dell’apparato digerente, ed è costituito dalla creazione di una piccola tasca gastrica, non comunicante col resto dello stomaco.

3- Interventi malassorbitivi: riducono il peso corporeo riducendo l’introito di cibo e riducendo permanentemente l’assorbimento intestinale dei grassi e degli amidi:

  • Diversione Biliopancreatica: resezione parziale dello stomaco
  • Divisione Biliopancreatica con Duodenal Switch: resezione parziale dello stomaco in verticale

E’ importante ricordare che ogni intervento chirurgico relativo all’obesità necessita di un anticipato consenso psicologico rispetto alla capacità del paziente di poter aderire al percorso clinico seguente l’intervento.
 

Terapia psicologica

Lo psicologo e il suo intervento nei casi di obesità rivestono un ruolo molto importante se si considerano anche i benefici psicologici che subentrano in conseguenza al dimagrimento: diminuzione dell’ansia, della depressione e dell’insoddisfazione corporea, aumento dell’autostima e miglioramento delle relazioni interpersonali.

E’ importante ricordare che la persona con un’immagine corporea negativa è costantemente ansiosa, imbarazzata e manifesta sentimenti di vergogna ma, con specifici interventi cognitivi-comportamentali è possibile migliorare l’immagine corporea, indipendentemente dai cambiamenti ponderali ottenuti.

Il trattamento psicologico parte dall’instaurare una relazione d’aiuto nella quale si pone l’attenzione sulla comprensione e sulla motivazione personale del paziente, responsabilizzandolo e insegnandogli funzionali capacità di gestione sia dei comportamenti che delle emozioni, per una migliore qualità di vita.

La relazione d’aiuto ha l’obiettivo di aiutare nella comprensione e nell’espressione dei propri problemi, tramite l’uso di strategie di auto-osservazione e agendo sulle spinte motivazionali e decisionali.

Se il paziente ha il compito di assumersi la responsabilità e l’iniziativa necessaria per iniziare il percorso di cura, il terapeuta ha il dovere di facilitare la presa in carico, da parte del paziente, delle cause sottostanti il problema e favorire l’acquisizione di efficaci abilità mentali e adeguati comportamenti, per un diverso stile di vita.

Il processo di apprendimento del soggetto, che avviene nella relazione d’aiuto e permette di migliorare la propria condizione, consiste in un graduale riconoscimento delle sensazioni e delle emozioni, nell’esercitare le abilità necessarie per esprimere e soddisfare i propri bisogni e nel comprendere la relazione esistente tra eventi esterni, pensieri negativi e comportamenti sbagliati.

Gli obiettivi dell’intervento psicologico sono:

  • Aiutare il paziente a raggiungere una perdita di peso ragionevole;
  • Aiutare il paziente a mantenere il peso corporeo perduto: il vero problema della cura dell’obesità non è la perdita di peso, ma è  quello di sviluppare una mentalità e un comportamento adeguato alla nuova condizione, grazie anche all’individuazione dei fattori che influenzano la sua alimentazione e il suo agire (situazioni sociali, emozioni, pensieri e meccanismi biologici del corpo);
  • Aiutare il paziente nella regolazione dei segnali biologici di fame e sazietà;
  • Facilitare uno stile di vita attivo (puntando anche sulla messa in atto di attività fisica) e aiutare il paziente a modificare quelle abitudini di vita non funzionali;
  • Sviluppare adeguate capacità di coping per affrontare situazioni ad alto rischio (situazioni sociali: cene o pranzi in compagnia, etc.; stati emotivi negativi: rabbia, noia, depressione, ansia, solitudine, paura, frustrazione, etc.): il coping indica la capacità di risolvere efficacemente i problemi, e la mancanza di tale abilità porta il soggetto a perdere il controllo e a mangiare in eccesso davanti a fonti di stress (soprattutto se ha aspettative positive legate all’assunzione di cibo);
  • Aiutare il paziente a raggiungere cambiamenti significativi in diverse aree fondamentali della sua personalità (immagine corporea, relazioni interpersonali, fiducia in se stesso, etc.);
  • Convincere il paziente dell’importanza dei benefici ottenuti dalla perdita di peso;
  • Convincere il paziente ad accettare quello che non può essere modificato (es. le forme del proprio corpo);
  • Sviluppare nel paziente la convinzione di essere in grado di controllare il proprio peso corporeo e favorire l’accettazione della stabilità ponderale (piuttosto che la sola perdita).

L’intervento psicologico, infine, assume un ruolo importante nelle fasi (precedente e successiva) del trattamento chirurgico dell’obesità.

Durante lo screening iniziale, necessario per selezionare un paziente obeso idoneo alla terapia chirurgica, l’esame psicologico ha infatti i seguenti obiettivi:

  • Individuare eventuali psicopatologie, disturbi affettivi, disturbi del pensiero e percezioni;
  • Valutare il significato soggettivo attribuito al cibo, la motivazione all’intervento e la volontà di aderire al successivo iter terapeutico;
  • Aiutare il paziente ad avere aspettative realistiche nei confronti del dimagramento.

Nel pre-operatorio, la valutazione psicologica avviene per mezzo del colloquio clinico, all’interno del quale lo psicologo stabilendo una relazione collaborativa col paziente, analizza e comprende il problema; nel post-operatorio, invece, il supporto psicologico aiuta il paziente a modificare quei meccanismi psichici che sono responsabili delle abitudini alimentari scorrette (causa dell’obesità).

Per un’analisi adeguata, inoltre, vengono utilizzati specifici test psicologici di personalità che permettono una conoscenza interpersonale meno esposta a distorsioni individuali; tali strumenti, essendo somministrati prima e dopo l’intervento, permettono anche di individuare i cambiamenti (generalmente positivi) di alcune caratteristiche di personalità.
 

OBESITA’ INFANTILE

I bambini nascono con una capacità di autoregolazione precisa ed efficiente, infatti bisogni quali la sete, la fame e la sazietà sono controllati nell'organismo animale con sofisticati meccanismi che garantiscono un adeguato equilibrio. 

Se però gli animali sono capaci di mantenere costante il loro peso, grazie alla capacità di riconoscere i propri bisogni e di dare loro una risposta adeguata, l’uomo ha compromesso questa capacità a causa dei condizionamenti esterni, delle abitudini familiari e delle regole della società.

E' frequente riscontrare nell'obesità un'alterazione dei meccanismi autoregolatori, accentuati da un’assunzione di cibo non motivata solo dalla fame: si mangia perché è l'ora del pasto, perché è un modo di stare in compagnia, perché uno stato emotivo trova nel cibo una momentanea gratificazione o al contrario non si mangia perché non c'è tempo, perché si segue una dieta, ecc...

Proprio partendo da questa considerazione, è possibile trovare la via della guarigione grazie alla riscoperta della fame e della sazietà, imparando a distinguere la fame biologica dalla fame emotiva, concedendosi tempo e attenzione al pasto, gustando e non divorando, ritrovando dunque un rapporto equilibrato con il cibo, fonte di sostentamento ma anche espressione di tradizioni, cultura e manifestazione della propria personalità.

Sostenitori di questo percorso di cambiamento nei bambini e nei ragazzi sono i genitori ed i familiari, che hanno il compito di fare la spesa, organizzare la dispensa, programmare pasti equilibrati ed aiutare il bambino nella comprensione dei suoi bisogni e nella ricerca della risposta migliore.

Il bambino o l’adolescente fanno parte di un sistema-famiglia, di un sistema-scuola e di un sistema sociale in senso lato (mass-media e pubblicità, consuetudini culturali) che influenza fortemente le sue scelte e le sue abitudini, anche in campo alimentare.
 

Le cause

L'obesità è il risultato di diverse cause più o meno evidenti e più o meno presenti a seconda del soggetto e per tale ragione si parla di un'eziologia multifattoriale che chiama in causa alimentazione, sedentarietà, fattori genetici e fattori ambientali. 

L'avere uno o entrambi i genitori obesi è il fattore di rischio più importante per la comparsa dell'obesità in un bambino; negli ultimi anni la ricerca ha portato alla luce il contributo genetico della familiarità nello sviluppo dell'obesità. Studi su gemelli omozigoti e soggetti adottati, attraverso la correlazione del peso dei soggetti stessi e dei genitori adottivi e naturali, hanno dimostrato che il grado di ereditabilità del sovrappeso varia dal 60 al 70%.

Un altro fattore da tenere in considerazione è la precocità dell'adiposiy rebound: normalmente dopo l'età di un anno, i valori di BMI (Indice di Massa Corporea: peso in kg /altezza in m²) diminuiscono fino a raggiungere il valore minimo attorno ai 5-6 anni per poi riprendere ad aumentare; un incremento dei valori di BMI prima dei 5 anni (adiposity rebound precoce) viene riconosciuto come un indicatore precoce di rischio di sviluppo di obesità. 

Ma l'aumento così repentino del numero di bambini obesi non può esser imputato solo alla predisposizione genetica: non possono infatti essere mutati così drasticamente i caratteri genetici in un intervallo di tempo di qualche decennio. 

Il patrimonio genetico è quindi la base su cui si inseriscono anche altri fattori: alimentazione, inattività, contesto sociale e comportamento alimentare. 
 

Le abitudini alimentari dei bambini obesi

Analizzando le abitudini alimentari dei ragazzi in sovrappeso si nota un modello alimentare sregolato: saltare la colazione, tendenza all'eccessivo consumo di snack pronti, elevata introduzione di grassi e scarso consumo di frutta e verdura. 

Allo sviluppo dell'obesità infantile contribuisce l'ambiente familiare in quanto incide sulla costruzione del modello comportamentale di controllo dell'introito di cibo, grazie al tipo di comportamento alimentare dei genitori e alle modalità  con cui nutrono i figli. 

Ecco alcuni esempi di comportamenti che alterano la capacità di percepire i segnali di fame e sazietà:

  • insistere sul terminare il cibo presente nel piatto;
  • associare al pasto altre attività: lettura, televisione, computer, ecc...;
  • utilizzare il cibo come festeggiamento, premio o punizione.

Genitori che hanno essi stessi problemi di peso, preoccupati per lo stato di sovrappeso dei figli, possono inoltre intervenire con pratiche di controllo non adeguate, che promuovono lo sviluppo di stili alimentari problematici e sovrappeso dei figli.

In questo senso, le varie ricerche suggeriscono come i programmi di prevenzione dovrebbero mirare a fornire conoscenze e strumenti utili per incoraggiare tutte le famiglie ad attuare modelli di preferenze e scelte alimentari più vicine a diete salutari, promuovendo così la capacità dei bambini all'autogestione dell'alimentazione, per quanto di loro competenza.
 

La sedentarietà

Oltre all'aumentato consumo di cibi ricchi di energia e ricchi di grassi, la generale tendenza alla sedentarietà ha contribuito in modo notevole al vistoso incremento della prevalenza dell'obesità, soprattutto nei bambini.

Questo nuovo stile di vita è favorito dal rilancio tecnologico che riduce al minimo sforzo ogni attività della giornata: trasporti automatizzati, ascensori, scale mobili, riscaldamento, lavatrice, lavastoviglie, computer, telefoni interni, telecomando, telefono cellulare, alzacristalli elettrici, spazzolino elettrico, grattugia elettrica....e così per tanti altri aspetti della quotidianità di ogni persona.

La riduzione dell'attività fisica quotidiana, causa importante dello sviluppo del sovrappeso, è progressiva con l'aumentare dell'età, soprattutto nelle ragazze.

Nell'ambito delle attività sedentarie, che occupano sempre maggior spazio nella giornata dei ragazzi, televisione e computer occupano molte ore con effetti importanti: riduzione del metabolismo, visione di pubblicità alimentari, invito a mangiare e sottrazione di tempo ad attività più dispendiose.

È stato più volte sottolineata la correlazione tra ore trascorse davanti alla televisione e grado di sovrappeso, logica conseguenza di uno squilibrio tra introito e dispendio energetico e della modificazione delle preferenze alimentari, indotta dall'esposizione a spots alimentari anche di brevissima durata (secondo recenti analisi ogni 5 minuti viene trasmesso uno spot alimentare). 

Inoltre, tra i fattori che possono influenzare il BMI nell'adolescenza rientra la bassa classe sociale della famiglia di appartenenza, e questo probabilmente riflette in scarsa qualità degli alimenti, un basso consumo di fibra ed elevato apporto di grassi.
 

Conseguenze

L'obesità é una patologia che, come detto in precedenza, puó essere da sola, la causa di numerose complicazioni mediche e sociali.

Nello specifico, nel bambino essa puó provocare diversi problemi: 

  • Aumento del carico meccanico: mal di schiena, disturbi ortopedici, scarsa tolleranza all'esercizio fisico,apnee nel sonno e disturbi respiratori;
  • gastrointestinali: calcolosi biliare e steatoepatite;
  • Dislipidemie;
  • Diabete;
  • Ipertensione;
  • Alterazioni cutanee;
  • Influenza sullo sviluppo puberale: policistosi ovarica, ipogonadismo e compromissione della fertilità;
  • Aumento della velocità di crescita;
  • Psico-sociali: bassa autostima, depressione e disturbi alimentari;
  • Maggior rischio per alcune neoplasie;
  • Persistenza dell'obesità.


Terapia

In generale, la causa psicogena dell’obesità è sottostimata da parte delle famiglie, che pensano a cause dovute a normali processi di crescita o ad una cattiva nutrizione, oppure a una ingordigia infantile. L’obesità però, non è una condizione secondaria alla mancanza di volontà o ingordigia infantile, ma è un problema che investe sia il bambino sia il genitore, rendendo opportuno un trattamento a tutto tondo.

Se ci si concentra unicamente sull’approccio nutrizionale, regolando la quantità di cibo e sostituendo i cibi calorici con quelli più sani, si perdono possibilità enormi di riportare il bambino ed il genitore al centro della cura, restituendo loro soggettività e coinvolgendoli nelle reciproche esistenze.

La terapia migliore che puó esser attuata é quella della prevenzione, che deve iniziare nei soggetti a rischio fin dall'età evolutiva, con un'educazione che attraversa i vari aspetti della loro quotidianità: scuola, mensa scolastica, genitori e mezzi di comunicazione.

Invertire la tendenza del fenomeno dell’obesità infantile si dimostra però, attualmente molto difficile; decenni di studi sottolineano l'inefficacia del trattamento costruito sulla sola dieta ipocalorica e prende sempre più importanza l'approccio multidisciplinare al problema considerato il risultato di cause complesse e multifattoriali. 

L'obiettivo complessivo è quello di ottenere modifiche nel comportamento individuale e di eliminare le barriere sociali che si oppongono a scelte di vita salutari (piste ciclabili, campi sportivi, attività fisica a scuola, parchi gioco...), enfatizzando la gestione del peso a lungo termine più che estreme riduzioni di peso nel breve periodo (un vero e proprio dimagrimento è necessario solamente ove vi sia un BMI elevato o in presenza di complicanze mediche); si deve acquisire una corretta alimentazione che, unita ad un incremento dell’attività motoria, portano ad una riduzione della sedentarietà (grande nemico dei bambini di oggi).

Un aspetto importante nella prevenzione e cura dell'obesità infantile è quindi il comportamento motorio, perché, il movimento, indipendentemente dallo stato di salute, è una necessità fisiologica per qualsiasi bambino, grazie alla sua capacità di ridurre lo stress e produrre benessere psicologico. Per rendere possibile una simile attività però, è necessario coinvolgere attivamente i genitori nel programma di dimagrimento dei figli e questo, perché, sembra che l'attività fisica dei genitori determini un aumento del livello di attività dei bambini obesi.

Il movimento, inoltre, comporta numerosi aspetti positivi:

  •  favorisce una crescita fisica, psicologica e corporea armonica;
  • aumenta l'agilità e la forza, migliorando così l'autostima e il senso di benessere;
  • favorisce l'apprendimento e riduce l'ansia per la prestazione scolastica;
  • favorisce la socializzazione;
  •  abitua al rispetto delle regole;
  • previene molte malattie dell'età adulta (ipertensione, ipercolesterolemia, malattie cardiache, obesità, diabete, alcuni tumori);
  • permettere di sperimentare appieno i vari stimoli sensoriali e di acquisire autonomia, orientamento e identificazione con l'ambiente in cui il bambino vive. 

Un bambino attivo diventerà quasi sicuramente un adulto attivo e sano.

Per quanto riguarda il bambino, dopo la prima fase di inquadramento diagnostico e di conoscenza generale, fa seguito un percorso personalizzato, che viene strutturato secondo le specifiche caratteristiche proprie e del nucleo familiare di cui fa parte; esso mira a renderlo soggetto informato e protagonista di scelte di salute, che avranno valore sia per il suo presente sia per il suo futuro di adulto più sano e quindi più felice.

Gli obiettivi riguardano:

  • Un'educazione al corretto stile di vita, con l’apprendimento di nozioni di base sul cibo, sul movimento e sulla modificazione di abitudini non corrette;
  • La conoscenza del mondo interno del bambino e del suo rapporto con i contesti esterni in cui vive, quali la scuola,la famiglia, il gioco, lo sport e gli amici;
  • Un’educazione alla conoscenza delle emozioni, con particolare attenzione alla sfera delle emozioni negative e/o di quelle interessate nel rapporto con il cibo e con il suo corpo.

Per quanto riguarda la famiglia, è importante sottolineare come essa debba fungere non solo da accompagnatrice, ma anche da coattivatore presente e ausilio fondamentale al bambino in questo percorso.

Ad essa è riservato uno spazio parallelo e separato dal figlio nelle visite, attraverso colloqui personalizzati (di coppia o con il singolo genitore) con un professionista diverso (dietista, medico, psicoterapeuta). 

Le finalità del trattamento familiare in questo ambito riguardano:

  • o Informazioni mediche e dietologiche sullo stato del bambino;
  • o Educazione alimentare e corretta gestione del cibo in famiglia;
  • o Informazione costante su progressi, eventuali difficoltà e cambiamenti nel figlio;
  • o Supporto e a casa e verifica nel perseguire le indicazioni date a livello della gestione alimentare e motoria;
  • o Condivisione, sostegno e trattamento di eventuali difficoltà relazionali o emotive in famiglia, che possano contribuire al problema o alterare un rapporto funzionale con il cibo


ALTRI DISTURBI ALIMENTARI
 

PICA: Caratteristiche diagnostiche secondo il DSM-5

La caratteristica principale della pica è la persistente ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili, per un periodo di almeno 1 mese, che risulti così grave da giustificare l’attenzione clinica. Solitamente le sostanze ingerite variano per l’età dell’individuo e per la disponibilità nel reperirle (possono comprendere carta, sapone, stoffa, capelli, lana, terra, gesso, talco in polvere, vernice, gomma, metallo, ciottoli, carbone, cenere, creta, amido o ghiaccio), ma nonostante la particolarità di ciò che viene ricercato, tali persone non mostrano avversione per il cibo in generale. 

L’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili, deve essere inappropriata rispetto allo stadio di sviluppo, e non deve far parte di una pratica culturale sancita o socialmente normata. 

L’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili, può essere una manifestazione associata ad altri disturbi mentali (es. disabilità intellettiva, disturbo dello spettro dell’autismo, schizofrenia), ma se il comportamento si manifesta esclusivamente nel contesto di un’altra patologia psichica, si deve porre una diagnosi separata di pica solo se l’atto di ingestione è sufficientemente grave da giustificare ulteriore attenzione clinica.

La diagnosi di pica non è giustificabile quando l’atto di ingerire sostanze senza contenuto alimentare (es. mangiare terra) ha un valore spirituale, medico, sociale o culturale.


Caratteristiche associate a supporto della diagnosi

La pica giunge principalmente all’attenzione clinica quando vengono riscontrate complicazioni mediche generali; nonostante spesso sono state rilevate carenze di vitamine o di sali minerali, nella maggior parte di casi non si riscontrano anomalie biologiche specifiche.


Sviluppo, decorso e conseguenze 

L’esordio della pica più frequente avviene in età infantile, ma essa può verificarsi anche in adolescenza o in età adulta: i bambini più a rischio possiedono uno sviluppo psichico e fisico nella norma, mentre per gli adulti la probabilità di ammalarsi è maggiore per chi ha deficit intellettivo o un altro disturbo mentale. 

La pica si riscontra sia nei maschi che nelle femmine; in queste ultime un periodo particolare è durante la gravidanza, quando possono insorgere desideri incontrollati specifici di ingestione; in questo caso è importante rilevare che l’ingestione di tali sostanze costituisca un potenziale rischio medico.

Il decorso del disturbo può essere protratto e provocare emergenze mediche, anche fatali (es. avvelenamento, forte perdita di peso, ostruzione intestinale).

La pica può compromettere in modo significativo il funzionamento fisico, ma è raramente riconosciuta come la causa scatenante di compromissione del funzionamento sociale, infatti essa spesso si verifica in associazione con altri disturbi.


Fattori di rischio 

I fattori di rischio più incidenti sono quelli ambientali, quali l’abbandono, la mancanza di controllo e il ritardo dello sviluppo.


DISTURBO DELLA RUMINAZIONE
 

Caratteristiche diagnostiche secondo il DSM-5

La caratteristica fondamentale del disturbo della ruminazione è il ripetuto rigurgito del cibo dopo la nutrizione o l’alimentazione per un periodo di almeno 1 mese. Il cibo precedentemente ingerito, che può essere parzialmente digerito, è rigurgitato in bocca senza apparente nausea, involontari conati di vomito o disgusto. Il cibo può essere rimasticato, e poi nuovamente sputato o inghiottito. Il rigurgito, durante il manifestarsi di tale patologia, dovrebbe essere frequente, verificandosi almeno diverse volte a settimana (di solito ogni giorno). 

Il comportamento in oggetto, non è spiegato da una condizione gastrointestinale associata, o da un’altra condizione medica (es. reflusso gastroesofageo) e non si manifesta esclusivamente durante il decorso di anoressia nervosa, bulimia nervosa, disturbo da binge-eating o disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo. Se i sintomi si manifestano nel contesto di un altro disturbo mentale (es. disabilità intellettiva, disturbo del neuro sviluppo), devono essere sufficientemente gravi da giustificare ulteriore attenzione clinica e dovrebbero anche rappresentare un aspetto primario della manifestazione del soggetto. 

La diagnosi può essere fatta grazie all’osservazione diretta del comportamento, o grazie a informazioni e dati riportati dal soggetto (che può riconoscere tale comportamento come abituale o come al di fuori del suo controllo) o dai suoi familiari.


Caratteristiche associate a supporto della diagnosi

Il disturbo da ruminazione può coinvolgere anche neonati, i quali evidenzieranno una caratteristica posizione da stiramento e incarnamento della schiena con la testa gettata all’indietro, mentre saranno intenti a fare movimenti di suzione con la lingua. Durante questi atti il bambino mostra piacere, mentre può mostrare irritabilità e fame tra un episodio di rigurgito e l’altro. 

Sebbene il senso di fame sia mantenuto, e viene ingerita una normale quantità di cibo, nei casi più gravi (quando cioè il rigurgito segue subito il pasto ed il cibo viene espulso), può manifestarsi perdita di peso e malnutrizione; quest’ultima può verificarsi anche nei bambini più grandi e negli adulti, quando il rigurgito comporta anche una minor assunzione di cibo.

Se i bambini mostrano il loro disturbo naturalmente, le persone più grandi, consapevoli dell’indesiderabilità sociale del loro comportamento, possono tentare di mascherarlo, mettendosi una mano davanti alla bocca, tossendo, evitando di mangiare in pubblico o di alimentarsi prima di una situazione sociale (che potrebbe rendere difficoltoso il rigurgito).


Sviluppo, decorso e conseguenze 

L’esordio del disturbo da ruminazione può verificarsi durante la prima infanzia (3-12 mesi), l’infanzia, l’adolescenza o l’età adulta; spesso nell’età infantile il comportamento va verso una remissione spontanea ma, in caso di emergenze mediche (es. malnutrizione) può protrarsi.

Nei bambini, quando il rigurgito è ripetuto si verifica una malnutrizione che causa un ritardo nella crescita, con un conseguente effetto negativo sullo sviluppo e sul potenziale di apprendimento del soggetto coinvolto. Nei bambini più grandi, negli adolescenti e negli adulti, invece, il funzionamento sociale viene influenzato negativamente e ciò porta a un restringimento volontario dell’assunzione di cibo seguito da perdita di peso.

Il decorso può essere episodico, continuativo o anche letale; la remissione dai sintomi può rendersi difficoltosa perché nei neonati o in soggetti con disabilità intellettiva, il comportamento può svolgere una funzione autocalmante e di autostimolazione. 


Fattori di rischio 

I fattori di rischio più comuni sono quelli ambientali, che includono problemi psicosociali quali la mancanza di stimolazione, l’abbandono, lo stress e problemi nella relazione genitori-bambino.


DISTURBO EVITANTE/RESTRITTIVO DELL’ASSUNZIONE DI CIBO
 

Caratteristiche diagnostiche secondo il DSM-5

La caratteristica diagnostica principale del disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo è l’evitamento o la restrizione nell’assunzione di cibo, manifestati da un’incapacità clinicamente significativa nel soddisfare i requisiti per la nutrizione, oppure da un apporto energetico insufficiente attraverso l’assunzione orale di cibo. 

Per la diagnosi devono essere presenti una o più delle seguenti caratteristiche: significativa perdita di peso, significativo deficit nutrizionale, dipendenza dall’alimentazione parenterale o da supplementi nutrizionali orali (es. neonati con ritardo nella crescita che necessitano di un sondino naso gastrico, bambini con un disturbo del neuro sviluppo), o una marcata compromissione del funzionamento psicosociale.

La valutazione del livello del peso e dell’analisi del deficit nutrizionale derivano da un’analisi medica, capace anche di rilevare quelle situazioni (tipiche nei bambini e negli adolescenti che non hanno ancora completato la propria crescita) in cui il sintomo si rileva non dalla perdita di peso ma dall’incapacità di mantenere il peso o dall’aumento dell’altezza lungo la propria traiettoria evolutiva.

Soggetti affetti da questa patologia assistono a una marcata interferenza con il funzionamento psicosociale a causa della loro difficoltà a svolgere normali attività sociali come il mangiare in pubblico o il sostenere relazioni con altre persone.

Nella diagnosi di disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo non bisogna includere soggetti che non si alimentano adeguatamente a causa della mancata disponibilità di cibo o di pratiche culturali (es. digiuno religioso) né soggetti che hanno comportamenti evolutivi tipici (es. essere schizzinosi da bambini, ridotta assunzione di cibo nell’età anziana)

Il disturbo, inoltre, non può essere meglio spiegato da un’eccessiva preoccupazione relativa al proprio peso o alla forma del proprio corpo, o da concomitanti fattori medici o disturbi mentali.

In alcuni individui l’evitamento e la restrizione dell’assunzione di cibo, possono essere dovuti alle caratteristiche sensoriali delle qualità del cibo: estrema sensibilità ad aspetto, colore, odore, consistenza, temperatura o gusto, rifiuto a mangiare determinate marche di alimenti o tollerare l’odore del cibo mangiato da altri.


Caratteristiche associate a supporto della diagnosi

Ci sono diversi fattori che possono comportare un evitamento o un’assunzione ridotta di cibo e tra queste devono essere incluse la mancanza di interesse per il mangiare o per il cibo, che conseguentemente comportano perdita di peso e crescita discontinua.

Nello specifico, inoltre, i neonati possono mostrarsi troppo assonnati, stressati o agitati per essere alimentati; i neonati e bambini possono non collaborare col caregiver durante il momento dei pasti; gli adolescenti possono invece vivere difficoltà emotive (non classificate con altre patologie) che gli causa questo scompenso alimentare. 


Sviluppo, decorso e conseguenze 

L’esordio del disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo, è più comune nell’infanzia e nella prima infanzia, ma esso può protrarsi anche nell’età adulta, dove vi può essere un lungo ritardo tra l’insorgenza e la manifestazione clinica.

I bambini possono manifestare apatia, chiusura in se stessi, irritabilità e difficoltà al conforto durante i momenti dei pasti, che possono aggravarsi dall’interazione problematica tra genitore e bambino e da un apporto calorico inadeguato; se in risposta al cambiamento di caregiver, migliorano l’alimentazione e il peso, viene suggerita una coesistenza di psicopatologia nei genitori, oppure abuso o abbandono infantili.

Nei bambini e negli adolescenti il disturbo causa difficoltà nello sviluppo e nelle potenzialità dell’apprendimento, ritardo nella crescita e compromissione del proprio funzionamento sociale (soprattutto negli adolescenti) che causano un maggior stress durante il momento dei pasti o in contesti di alimentazione che coinvolgono amici o parenti.


Fattori di rischio 

I fattori di rischio principali che possono aumentare l’insorgenza del disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo sono quelli temperamentali, quelli ambientali e quelli genetici/fisiologici.

I fattori temperamentali includono disturbo d’ansia, disturbo dello spettro dell’autismo, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo da deficit di attenzione/iperattività; quelli ambientali contemplano l’ansia familiare, mentre quelli genetici/fisiologici riguardano una storia di condizioni gastrointestinali, disturbo da reflusso gastroesofageo e vomito.


Aspetti diagnostici correlati al genere

Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo, è ugualmente comune nei maschi e nelle femmine nell’infanzia ma, se esso si verifica in comorbilità con il disturbo dello spettro dell’autismo ha una predominanza maschile. 


DISTURBO DA BINGE-EATING
 

Caratteristiche diagnostiche secondo il DSM-5

La caratteristica principale che contraddistingue il disturbo da binge-eating sono i ricorrenti episodi di abbuffata, che devono verificarsi, in media, almeno una volta alla settimana, per 3 mesi consecutivi (ci sono quattro livelli di gravità: lieve = da 1 a 3 episodi a settimana; moderata = da 4 a 7 episodi a settimana; grave = da 8 a 13 episodi a settimana; estrema = 14 o più episodi la settimana). Un episodio di abbuffata è definito come il mangiare in un determinato periodo di tempo (meno di due ore) una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte degli individui mangerebbero nello stesso tempo e in circostanze simili; il continuo “spiluccare” piccole quantità di cibo durante tutta la giornata non è includibile nella definizione di abbuffata.

Per la valutazione clinica risulta molto importante il contesto in cui avviene l’episodio (es. una quantità di cibo può essere giudicata eccessiva per un pasto in un giorno comune, ma può essere normale durante una festività), che non deve essere necessariamente uno solo.

Un episodio di eccessivo consumo di cibo, per essere considerato di abbuffata, deve essere accompagnato dalla sensazione di perdere il controllo (esperienza soggettiva), di incapacità dall’astenersi al mangiare o dallo smettere una volta cominciato.

Il cibo che viene assunto durante l’abbuffata varia da individuo a individuo e da un momento all’altro per la stessa persona, ma il punto fermo è la quantità anomala di cibo consumato, unito al desiderio incontrollato per uno specifico alimento.

Gli episodi di abbuffata devono essere caratterizzati da un marcato disagio e da almeno tre delle seguenti caratteristiche: mangiare molto più rapidamente del normale, mangiare fino a sentirsi sgradevolmente pieni,mangiare grandi quantità di cibo anche se non ci si sente affamati, mangiare da soli a causa dell’imbarazzo per quanto si sta mangiando e sentirsi disgustati verso se stessi, depressi o molto in colpa dopo l’episodio.

Le persone che soffrono di binge-eating spesso si vergognano dei loro problemi con l’alimentazione, e tentano di nascondere i loro sintomi, spesso scatenati da un’emozione negativa, una condizione interpersonale stressante, una restrizione dietetica (che causa anche sentimenti negativi verso il proprio peso e le proprie forme fisiche) o dalla noia. Le abbuffate, inoltre, vengono messe in atto per minimizzare o attenuare i fattori che hanno scatenato l’episodio nel breve termine.   

Importante al fine della diagnosi di binge-eating è che l’abbuffata non è associata alla messa in atto sistematica di condotte compensatorie inappropriate (come la bulimia nervosa).


Caratteristiche associate a supporto della diagnosi

Il disturbo da binge-eating coinvolge individui normopeso, in sovrappeso e obesi (obesità e binge-eating sono due patologie distinte perché gli obesi non si abbandonano a ricorrenti abbuffate).


Sviluppo, decorso e conseguenze 

Il disturbo di binge-eating può verificarsi nei bambini, negli adolescenti e negli adulti; i bambini possono attuare abbuffate e episodi di alimentazione incontrollata senza un eccessivo consumo di cibo, che causano aumento del peso, aumento del grasso corporeo e aumento di sintomi psicologici, mentre gli adolescenti possono iniziare con delle abbuffate occasionali, che poi sfociano nel vero e proprio disturbo alimentare.

La remissione dei sintomi è difficoltosa, tanto che il disturbo tende a persistere nel tempo, creando così conseguenze funzionali, quali problemi di adattamento al ruolo sociale, compromissione della qualità di vita e della soddisfazione di vita correlati alla salute, aumento nell’uso dei servizi sanitari, aumento di peso e maggior rischio di sviluppare obesità.


Fattori di rischio 

I fattori di rischio che incidono maggiormente su questa patologia sono quelli genetici/fisiologici, riguardanti la familiarità e quindi la possibilità di trasmissione genetica tra parenti.