Cosa aspettarsi quando si aspetta di andare dallo psicologo

Timori e ansie da "primo colloquio"

Pubblicato il   / Psicologia e dintorni
Cosa aspettarsi quando si aspetta di andare dallo psicologo

Navigando in rete si incontrano molti (e non sempre interessanti) articoli sul Primo colloquio, sulle strategie migliori per recuperare le informazioni che al clinico servono per costruire un quadro quanto più possibile chiaro ed ampio del problema presentato dalla persona che incontra.

Quindi non scriverò di quello (si: odiatemi pure).

Quello che vi propongo è una riflessione su ciò che si pensa quando si decide di consultare uno psicoterapeuta. Quali scenari ed immagini attraversano la mente di chi, pur soffrendo per qualcosa, mette sui piatti di una immaginaria bilancia il suo dolore psichico e l’imbarazzo del chiedere aiuto per una difficoltà la cui soluzione non è medica. C’è ben poca esitazione nel rivolgersi ad un dottore-in-camice-bianco quando si ha un dolore o si teme di avere un problema. Persino andare dal nutrizionista causa meno apprensione che recarsi dallo psicologo (strizzacervelli-meglio un mago-machimelohafattofare).

Come vi dicevo, sono una fanatica degli stereotipi sul mio mestiere, ne ho sentite molte ed altrettante me ne sono state rivolte. C’è stato chi pensava capissi ogni cosa da come stesse seduto sulla sedia (analisi di un grillo salterino), chi credeva risolutamente dovesse parlare solo di sogni (Grazie Sigmund), chi solo del rapporto con la madre (ai restanti  membri della famiglia non siamo interessanti, grazie), chi pensava non dovesse parlare affatto (e non sapete quanto possono essere eterni 50 minuti di silenzio!).

Avevano, in una parola, paura!

E spesso, per questo, si rimane dove si è (e non ci vuole certo uno “psico-qualche-cosa” per dirvi che quell’immobilità è un pezzetto del problema).

Tenetevi forte, sono adesso pronta a svelarvi un segreto: la prima domanda. La temuta bestia nera che segue le presentazioni, quella frase che aleggia nella stanza non appena avete trovato sulla sedia una posizione che non vi intorpidisca le gambe, l’inizio della fine: “Per quale motivo ci incontriamo oggi?

Un primo incontro può, in alcuni casi, finire lì, oppure può dare inizio ad un percorso, può segnare una strada.

Alcune delle persone con le quali ho lavorato dicono sia brava a costruire metafore: provate a seguirmi.  Immaginate un colloquio (sia esso il primo o il trentesimo) come una passeggiata in un giardino fiorito. C’è un sentiero che attraversa le aiuole del giardino. Il luogo vi è familiare ma non ricordate l’ultima volta che ci siete stati e di sicuro, non avete mai avuto il tempo di visitarlo per intero, tanto è ampio. Davanti ad alcune piante vi piacerà fermarvi un attimo per sentire se hanno un odore, per vedere i colori, per capirne la distribuzione ed osservarne la bellezza. Passando vicino ad un roseto, magari si urterà un ramo spinoso , di quelli che fuoriescono dal disegno dell’arbusto, che vi ferirà ma non questo, mi auguro, vi farà detestare le rose. Certo non le si vorrà ammirare in quel momento e si aspetterà un po’ prima di ritornarci. Durante la camminata noterete che alcune zone saranno in ombra e non vi attrarranno come quelle soleggiate e tiepide, le terrete a mente e starà a voi decidere se e con che tempi frequentarle. Alcuni giorni in quel giardino non vedrete l’ora di tornare e la passeggiata sarà serena, rinfrancante mentre altri vorrete chiudere il cancello a doppia mandata o chiamare qualcuno perché si occupi di estirpare ogni cosa.

Saranno queste, le emozioni, a dirvi che quello è il vostro giardino!