Rischiare di sentire: conviene davvero essere vivi?

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Rischiare di sentire: conviene davvero essere vivi?

Gli esseri umani provano emozioni. Anche gli animali più complessi, come ad esempio i mammiferi, provano emozioni. La presenza di emozioni quindi sembra essere direttamente proporzionale alla complessità di un essere vivente.

Le formiche o le api ad esempio non hanno bisogno di emozioni per organizzare in modo efficace tutta la loro vita. Ma come potrebbe una gatta allevare in modo efficace i suoi cuccioli in assenza di emozioni? Per questo animale è fondamentale provare paura, per mettere in moto la difesa dei cuccioli, piuttosto che essere paziente per permettere l’allattamento. Le emozioni quindi consentono agli esseri umani e agli animali complessi una serie di esperienze di fondamentale importanza.

Se ci riflettiamo possiamo notare come le gioie e i dolori di ogni persona ruotano attorno alle emozioni (positive e negative) che si provano e non attorno a ciò che si pensa oppure a ciò si che fa.

Le emozioni sono un po’ i nostri messaggi privilegiati, il modo attraverso cui raccogliamo le più importanti informazioni: ad esempio la paura ci può informare che una situazione potrebbe essere potenzialmente pericolosa o l'attrazione verso un partner che questa persona potrebbe essere adatta per noi. Tutte queste informazioni hanno un’eco specifica in ogni persona, relativamente alle sue capacità cognitive, alla sua cultura di appartenenza, all'epoca storica in cui è inserita, alle esperienze particolari che ha vissuto nella sua vita. Infatti ognuno di noi può gioire o avere paura di cose molte diverse.

Le emozioni potrebbero essere paragonate ad una sorta di “mare” dentro di noi, che può essere - a seconda delle circostanze - calmo e quieto, oppure increspato e agitato.

Le emozioni sono quell’energia interna capace di farci sognare, di amare un’altra persona, di darci la forza per inventare, scoprire, per osare e raggiungere quello che la sola razionalità non avrebbe mai permesso.

Ma le emozioni non sono solo questo. Avere emozioni significa anche soffrire, piangere la perdita, provare sofferenza interna; emozioni possono essere anche forze distruttive come l’odio e il rancore, la rabbia o la gelosia.

Saper gestire le emozioni è una delle competenze più importanti che ognuno di noi può acquisire nella vita: saper navigare il mare anche quando è agitato. Non sapere intervenire sul proprio stato emotivo significa infatti essere in balia di forze interne con risultati dannosi o limitanti sulla nostra vita.

Ecco tre cose che una persona non dovrebbe fare quando “naviga in un mare mosso” e sente un’emozione negativa:

1) Evitamento

In genere quando si prova un’emozione spiacevole può risultare istintivo evitare la situazione o la persona\e che la evocano. Questa strategia si dimostra inutile perché non solo tende a limitare la propria vita, ma nel tempo, comporta anche un aumento della forza e dell’intensità dello stato emotivo evitato.

2) Opporre resistenza

Un’altra strategia comune è quella di negare l’esperienza emotiva opponendo resistenza. Quest’approccio è estremamente controproducente in quanto la resistenza esercita una forza uguale o superiore a quella dell’emozione cui si resiste. Potremmo quindi dire che “ciò che resiste persiste”.

3) Identificazione

Un altro sbaglio tipico è identificarsi con l’emozione che si sta sperimentando, portando a livello d’identità l’emozione in oggetto. C’è una sottile ma sostanziale differenza nel dire a se stessi “io sono arrabbiato/impaurito” dal dirsi “io in questo momento sto provando rabbia/paura”. Un’emozione è infatti “qualcosa che si prova”, non “qualcosa che si è”. Il fare questa distinzione ci consente di assumere una prospettiva più distaccata ed obiettiva nei confronti dell’emozione attiva.

Se è vero quindi che il mare delle proprie emozioni non deve essere negato, ma ascoltato, allora è necessario anche essere provvisti di un “porto” per ascoltare e del “permesso di accogliersi”. I luoghi/modi per “ascoltarsi” possono essere diversi per ogni persona: una passeggiata, un bagno caldo nella vasca, il proprio divano, stare in silenzio piuttosto che ascoltare musica.

Il proprio “porto sicuro” può essere anche solo immaginato, in fondo altro non è che un nostro “rifugio interiore”: una condizione di relativa calma e stabilità dove radicarsi, per esplorare noi stessi e il mondo esterno che ci circonda. Questo è il momento dove è necessario mettersi nella posizione di “osservatori gentili di noi stessi”: questo atteggiamento mentale viene definito dagli psicologi “mindfulness” ovvero “presenza mentale” e usata da molti approcci psicoterapeutici e spirituali come un grande strumento di comprensione del sé e del cambiamento.

Quindi quando ci troviamo in un momento della vita difficile, dove proviamo emozioni intense e difficili da gestire innanzitutto prendiamoci un po’ di tempo, consapevoli che nessuna bacchetta magica le farà sparire. Dobbiamo invece fermarci ad osservarle, a sentirle; c’è bisogno di molta calma e tempo quando lavoriamo per esplorare un problema che crea delle difficoltà emotive.

Nello stesso tempo ognuno di noi “è più grande” del problema che deve affrontare e la “autocuratività” della nostra mente ci permetterà di superare evolutivamente i diversi ostacoli che la vita per sua natura ci propone. Fermiamoci quindi ad ascoltare il messaggio che ci portano emozioni come la rabbia, la paura o il rancore: se le accettiamo potrebbero farci vedere aspetti del problema differenti e di conseguenza anche inaspettate soluzioni.