Fobie: scopriamo cosa sono veramente

Pubblicato il   / Ansia e Depressione
Fobie: scopriamo cosa sono veramente

Intendiamo per fobia una particolare forma di paura, immotivata e sproporzionata alla situazione reale, che non può essere dominata da un'analisi razionale, nè controllata con la volontà. Generalmente non si risolve nè si attenua nel tempo producendo, perciò, il persistente evitamento della situazione temuta (Marks, 1969).

Non sono molti i pazienti che presentano fobie definite; problemi fobici sono per altro spesso all’origine di altre patologie, come ad esempio la depressione, in quanto non permettono al soggetto di sperimentare situazioni per lui potenzialmente gratificanti. E’ quanto si determina, ad esempio, nelle così dette “fobie sociali”.

Distinguiamo le fobie in:

- spaziali, quando l'intensità della fobia varia al variare della distanza fisica dall'oggetto fobico;

- temporali, quando la sua intensità varia al variare del tempo in cui si verrà a contatto con l'oggetto fobico;

- tematiche, quando la fobia riguarda una situazione o una problematica non definibile in maniera concreta, quale ad esempio la “fobia per la solitudine” o per l’”autorità”.

La risposta fobica generalmente s’estrinseca sia su di un piano fisiologico, inducendo modifiche neurovegetative quali tachicardia o sudorazione, sia emotivo, sia cognitivo e sia comportamentale, come la messa in atto di un programma di fuga.

 

Etiopatogenesi delle fobie secondo il modello cognitivo-comportamentale

Secondo la teoria dell’apprendimento le fobie originano da specifici apprendimenti, in base ai modelli del condizionamento classico, di quello operante e del modellamento. In particolare una fobia si determina in base ad un meccanismo di “condizionamento classico” o di “modellamento”. Il suo perdurare nel tempo, cioè la sua non estinsione avviene per dei meccanismi di tipo “operante” (condizionamento operante o strumentale). Frequenti sono, poi, i processi di "generalizzazione", responsabili dell'ampliamento della gamma degli oggetti e/o delle situazioni fobogene.

Seligman (Seligman, 1971) ipotizza che nell’organismo esistano delle predisposizioni biologiche, su base genetica, responsabili del privilegio delle associazioni fra certi tipi di stimoli piuttosto che altri, capaci di accellerare il processo di condizionamento. Non è tuttavia chiaro, né sembra avere importanza per il trattamento, se questa predisposizione dipenda da fattori innati o da apprendimenti avvenuti in epoche precoci della vita. E’ inoltre da tenere presente che i soggetti introversi sono più facilmente condizionabili di quelli estroversi, e che il loro condizionamento appare meno facilmente estinguibile.

Un aspetto del tutto particolare è che la fobia permane anche se l’individuo non entra più in contatto con la situazione-stimolo primaria, cioè quella che la ha originariamente indotta; tale aspetto sembra solo in apparenza in antitesi con le leggi dell’“estinzione”, in quanto la fobia tende a persistere grazie al continuo evitamento della situazione fobica attuato dal soggetto che, così, ne impedisce l’estinsione.

Il comportamento d’evitamento tende inoltre ad essere messo in atto nei confronti di stimoli sempre più distanti da quelli originali, in base ad un fenomeno di “generalizzazione”: è questo il motivo per cui alcune tecniche di tipo cognitivo-comportamentale, considerato l’approccio principe nel trattamento di queste sindromi, hanno proprio lo scopo d’interrompere questo circolo vizioso impedendo la messa in atto del comportamento di evitamento, in modo da rendere possibile la naturale evoluzione del processo di estinzione.

 

Agorafobia e Disturbo da “attacchi di panico”

Una tra le sindromi fobiche di più frequente osservazione nella pratica clinica è l’”agorafobia”, spesso conseguente ad un “disturbo da attacchi di panico”.

Intendiamo per “Agorafobia” la paura di luoghi o di situazioni in cui il soggetto non si sente al sicuro ed in cui è per lui difficile ottenere l’aiuto da parte di qualcuno. Frequenti, negli agorafobici, le condotte d’”evitamento”.

L’”evitamento” riguarda una molteplicità di situazioni che il soggetto considera “a rischio”, con una limitazione dell’autonomia personale, fino a quei casi estremi in cui vive praticamente recluso nel proprio appartamento e dipende in tutto e per tutto dai familiari. Come dicevamo questa sindrome non infrequentemente si struttura in conseguenza ad un “disturbo d’attacco di panico”.

Il “Disturbo d’attacchi di panico” (DAP) è caratterizzato dall’insorgenza d’episodi acuti di ansia molto intensa, con fame d’aria, tachicardia, nausea e diarrea, fino al provare la drammatica sensazione di “morte imminente”.

Il DAP ha mostrato rispondere alla terapia antidepressiva.

L’attacco di panico è spesso indipendente da fattori psichici consci, com’è dimostrato dal fatto che circa il 50% delle volte insorge durante il sonno notturno. Frequentemente, inoltre, l’”attacco” non è derivabile psicologicamente, comparendo “a ciel sereno”. La psicoterapia, dunque, è indicata soprattutto per il trattamento delle condotte d’evitamento agorafobico e la non infrequente polarizzazione ipocondriaca che viene a strutturarsi in conseguenza alle sgradevoli sensazioni fisiche e psichiche provate durante il DAP.

Le teorie dell’apprendimento prevedono che il primo o i primi attacchi di panico possano derivare da una molteplicità di fattori o situazioni anche di origine squisitamente organica, quali misconosciuti problemi respiratori o cardiaci, come il prolasso della mitrale, non infrequentemente presente in questi pazienti: questi favoriscono, in soggetti predisposti, un condizionamento di tipo pavloviano per cui sensazioni enterocettive o specifici contenuti del pensiero che per coincidenza erano presenti in occasione del primo o dei primi attacchi, sono ora in grado essi stessi di scatenarlo (A tal proposito ci basti ricordare quanto accade nel famoso film “Arancia Meccanica”). Tutto ciò produce l’evitamento fobico di quei luoghi o di quelle situazioni in cui il DAP s’era verificato le prime volte.

In base al principio del “rinforzo negativo” tale “evitamento”, favorendo la riduzione dell’ansia e/o della paura, contribuisce al mantenimento della problematica disfunzionale.

Più di una volta, tuttavia, capita di ascoltare soggetti che avevano presentato il primo “attacco” mentre erano alla fermata dell’autobus o bloccati nel traffico. Pur non potendo negare che queste potrebbero essere situazioni ansiogene non possiamo escludere che, oltre a fattori costituzionali o genetici, particolari eventi contingenti possano assumere una certa valenza patogena. Alcuni hanno infatti ipotizzato che i pazienti con DAP posseggano una soglia per la CO2 abnormemente bassa per cui, quando si trovano in situazioni di deficit di O2 o di eccesso di CO2, tendono ad ”iperventilare” per ristabilire le condizioni precedenti: questo inconsapevole tentativo di compensazione viene “intepretato” come prodromo dell’“attacco di panico”. L’evitamento di quelle situazioni in cui il soggetto ha appreso che può verificarsi tale sintomatologia sarebbe poi responsabile delle successive condotte agorafobiche: viene così, gradualmente, a svilupparsi la “paura di avere paura” o fobofobia.
 

La fobia sociale

Questa problematica, relativamente comune, può essere fatta rientrare nel capitolo delle fobie anche se, dato il coinvolgimento globale della personalità, e sarebbe forse più idoneo considerarla una “problematica di personalità”.

Nell’approccio a questa patologia, che in genere limita notevolmente la vita, pur facendo ricorso a tecniche di tipo cognitivo-comportamentale, viene attribuita grande importanza alla relazione terapeutica “in se”, nell’ambito della quale il paziente potrà sperimentare quel calore, quella intimità e quella fiducia che in genere è in lui carente.

Un ruolo sostanziale è inoltre svolto dalle tecniche miranti ad un incremento dell’”assertività” (addestramento affermativo) e l’ausilio di strategie miranti a favorire l’acquisiszione, da parte del soggetto, di nuove abilità in ambito sociale.

Caratteristico di questi pazienti è la paura ed il successivo “evitamento” di situazioni in cui possono essere esposti al giudizio degli altri, come ad esempio il frequentare un luogo pubblico per il timore più o meno cosciente di apparire goffo, imbarazzato, ridicolo o, comunque, di non essere all’altezza.

Frequentemente concomita depressione, l’abuso di alcoolici o di sostanze aventi lo scopo di far superare, al soggetto, lo scoglio della paura.

Evidenti appaiono le strutture cognitive incongrue, un’autostima eccessivamente bassa e la tendenza irrazionale a vivere “gli altri” come estremamente ipercritici e disapprovanti, costruendo fantasie foriere di ansia anticipatoria e di uno “stato di allarme cronico”.

Frequenti i sintomi somatici come il tremore o il rossore, che contribuiscono a rinforzare le “condotte di evitamento”.

Nella strutturazione della problematica ruolo di una certa importanza possono averlo avuto degli apprendimenti per imitazione di simili condotte in persone importanti nell’infanzia o nell’adolescenza del cliente, generalmente nell’ambito di una cornice emozionale svalutante. Così, gradualmente durante lo sviluppo psicoaffettivo, si delinea una personalità che va incontro a continue frustrazioni con la conseguente acquisizione di una cronica sfiducia in se stessi e negli altri. Tutto ciò sarà affrontato e rielaborato nell’ambito del rapporto terapeutico, allo scopo di operare una globale ristrutturazione della personalità.

Notevole importanza l’assumono anche le tecniche d’“esposizione” ed il contemporaneo “insegnamento di nuove abilità”, attraverso i principi di Social Skills Trainigs