Claudia  domande di Psicologia e dintorni  |  Inserita il

Milano

Cambiare o non cambiare?

Gentile dottoressa,
Mi scuso innanzitutto per la lunghezza di quello che scriverò.
Le scrivo perché sono molto confusa.
Ho 29 anni e fino all’anno scorso mi sentivo realizzata: sono riuscita dopo anni di duro lavoro ad ottenere un contratto a tempo indeterminato, a comprarmi di conseguenza un appartamento e sto iniziando in questo periodo a progettare il mio matrimonio.
Dal lato familiare è sempre andato tutto bene: alti e bassi normali e gestibili.
Il problema è sul posto di lavoro: sono purtroppo sempre stata una persona passiva a cui andava bene qualsiasi cosa: qualsiasi lavoro affidatomi, qualsiasi orario, ecc.
Purtroppo con il tempo, non so se per orgoglio o altro, ma le ingiustizie hanno iniziato a pesare.
Ho una collega a cui ho voluto bene come una sorella. Ha un carattere molto difficile e non è ben accetta da tutti gli altri. Io devo lavorarci per forza perché fa parte del mio settore e quindi ho imparato sia a conviverci sia a volere bene. Mi affeziono facilmente e faccio di tutto per le persone.
Dopo 3 anni di “convivenza” con questa ragazza le sue continue lamentele hanno iniziato a pesare. Lamentele che non avevano ne capo ne coda. (Lamentele riguardo la mole di lavoro troppo bassa di tutti gli altri, lamentele perché le colleghe ogni tanto perdono tempo a fare quattro chiacchere, lamentele sul fatto che tutti chiediamo a lei un consulto le abbiamo dei dubbi essendo qui dalla fondazione dell’azienda, ecc) Ha un buon lavoro, ha ottenuto degli aumenti, è rispettata per l’anzianità (anche se è stata la prima impiegata della nostra azienda assunta per parentela).
Ho iniziato a riconsiderare la mia vita circa l’anno scorso: mi sono accorta che mentre lei si lamentava aveva comunque la facoltà di prendere senza problemi permessi, ferie, agevolazioni con altre colleghe in quanto parente del nostro capo (abbiamo più capi per ogni settore), ecc.. Mentre io facevo gli orari più brutti perché lei (per anzianità) reputava di non doverli più fare, i lavori che lei reputava più noiosi ecc.. mi sono poi accorta che venivo allontanata a mia volta dalle altre colleghe per il semplice fatto di essere sempre a disposizione di questa persona.
Ripensandoci ora in effetti ero molto un cagnolino. Il lavoro mi serve, come credo a tutti, e restavo accanto a questa persona che doveva poi dare giudizi sulla mia condotta al nostro capo al fine della mia assunzione. Questo voleva dire anche non parlare con le colleghe perché il fastidio che procuravo a questa ragazza era palese.
Ho provato più volte ad avere “scatti di orgoglio” ma che alla fine si sono ridimensionati: quando riportavo a lei le mie lamentele lei stessa iniziava a dire che la sua vita non era facile, che si sentiva esclusa, che le altre avevano più tempo per fare pause e chiacchierare invece lei era piena di lavoro, che alle mie (rare) richieste non mi era mai stato negato nulla ecc.. E’ vero: le rare volte che ho avuto delle esigenze, come andare in banca per poter ottenere un mutuo, non mi è stato negato nulla ma era evidente il fastidio e le smorfie che ho potuto vedere. Non sono brava a fare finta di niente e a passarci sopra.
Se probabilmente il capo non fosse stato parente le cose sarebbero andate diversamente e lei non avrebbe avuto tutto questo potere: lei gli riporta le cose in un determinato modo e comunque è preziosa per lui essendo presente dalla fondazione dell’azienda.
A luglio, dopo essermi ammalata, (per eccessivo stress) sono scoppiata. Supportata e spinta a cambiare da parenti e fidanzato ho presentato le dimissioni e ho detto tutto quello che non ho mai potuto dire al mio capo: ho confermato quello che dicevano le altre colleghe che era impossibile lavorare con il carattere di questa persona, che non sa collaborare, che è egoista, che alcuni suoi atteggiamenti danneggiano gli affari… (motivati con prove evidenti).
Il capo non è stato assolutamente contento di questa mia uscita perché non se l’aspettava: mettevo purtroppo anche in crisi l’azienda andandomene così su due piedi. mi ha quindi proposto di parlarne e cercare un compromesso: ora svolgo un part time di 30 ore per avere più tempo per me e per la mia famiglia. (Prima non ero mai a casa per gli eccessivi straordinari) Ho ribadito comunque gratitudine per un posto di lavoro che mi ha dato tanto e che sono sempre disposta a collaborare per consentire la riuscita di obiettivi comuni.
Sembrava essere tutto sistemato: il capo stesso mi ha abbracciato, mi ha detto di prendermi tutto il mese di agosto per ricaricarmi (avevo accumulato più di un mese di ferie in 2 anni che ero lì quindi potevo) e di non dire niente a questa persona ma semplicemente che per problemi familiari dovevo lavorare di meno al momento.
Questa persona ovviamente non ha preso bene questa mia agevolazione: se non si ha la stessa anzianità che ha lei (quindi impossibile) non è giusto ottenere privilegi o riconoscimenti.
Adesso sono 2 mesi che sto vivendo abbastanza un inferno. Lei è diventata fredda, acida e cattiva. Non sa collaborare e non si vive più bene così. In più, probabilmente grazie alla loro parentela, si devono essere parlati e detti chissà cosa. Il capo, se mi parla, mi parla freddamente e mi urla al telefono per cose che svolgo invece correttamente.
Il mio dubbio è proprio questo: con tutte le altre colleghe e colleghi (che mi stanno supportando vedendo cosa passo ogni giorno e conoscendolo bene loro stessi) vado molto d’accordo. Anche con gli altri capi. Ormai conosco quel lavoro come le mie tasche e riconosco finalmente di averlo sempre ben gestito con entusiasmo e voglia di fare. E’ quindi giusto rinunciare ad un posto di lavoro a tempo indeterminato per colpa di una ragazza immatura, parente del capo, che mi impedisce di andare avanti così?
Ringrazio davvero molto per l’attenzione prestatami. Chiedo scusa per essermi dilungata ma ho cercato di far ben capire una situazione un po’ complessa e che ha anche dello psicologico che dura ormai da 3 anni.

  1 Risposte pubblicate per questa domanda

Dott.ssa Mirella Caruso Inserita il 14/11/2018 - 09:55

Buongiorno Claudia, il problema che lei pone può avere due diverse soluzioni. Con la prima, si può ritenere essere il problema, l’atteggiamento della sua collega-capo la quale manifesta comportamenti "poco consoni" con le persone e sulla situazione lavorativa, ritenendo di avere privilegi dovuti all'anzianità di servizio e, in modo più o meno esplicito, relativi alla parentela con i vertici dell'azienda. Se è questa persona il problema, allora non resta che seguitare quella decisione che ha già preso a luglio: andare oltre il part-time e licenziarsi. Magari troverà un altro lavoro più appagante, ma se incorrerà ancora in un capo diciamo cosi'...poco democratico, allora si riproporrà il problema nuovamente. La seconda soluzione che le suggerisco, è quella di considerare "lo psicologico" che influisce o più profondamente contribuisce ad alimentare questa situazione. Ha scritto di una sua tendenza a essere molto " accomodante “e forse anche passiva nelle situazioni. L’ha fatto perché le serviva quel lavoro o perché la sua etica, probabilmente le impone un impegno serio nelle situazioni. Quest’atteggiamento "accomodante" si manifesta anche al di fuori del lavoro? Sta per sposarsi, come immagina la sua futura vita matrimoniale? "Ma come...il problema è quella là e lei mi parla della mia passività"...in un dialogo immaginario con lei, potrebbe essere questa una sua risposta, o di qualcuno che legge sul sito. Se però noi siamo convinti che il problema sia al di fuori di noi (magari è proprio vero!), qual è la soluzione? Andarsene, fuggire lontano, oppure viceversa, cercare di modificare la situazione, diventare dei sindacalisti o, allargando il discorso, fare politica, tentare di cambiare la società. E’ una possibilità. Viceversa, se va via e qualora la "passività" sia un tratto dominante della sua personalità, ritroverà lo stesso problema altrove. Succede così, le problematiche non superate ritornano sempre. La mente gira su se stessa. Di certo, dopo aver lavorato su questa sua caratteristica, potrebbe interagire in modo diverso, sottraendosi alla "cattiveria" e "acidità". In fondo, un mostro è un mostro fino a quando le persone ne hanno paura; un re è opprimente fino a quando qualcuno non riesce a dire che egli è nudo. Le consiglierei di approfondire la questione con uno psicoterapeuta. Saluti.