Virus e fantasmi del passato

Pubblicato il   / Psicologia e dintorni
Virus

Credo che in questo momento, così delicato e teso, il termine “paure ataviche” sia calzante.

Dato il mestiere che faccio, sono psicoanalista, ho una naturale tendenza a analizzare i miei pensieri e i miei stati emotivi (è quasi una deformazione professionale) ed ho notato un crescendo che mi ha fatto riflettere.

Il mio primo contatto con il coronavirus non è stato con il coronavirus, ma con l’allarme di una elegante signora, al binario 8 del treno Milano – Mantova, una settimana fa, alle ore 20 e 32, stazione di Milano Rogoredo. Stavo tornando a casa dal mio studio milanese, ero stanco morto e non vedevo l’ora di andare a dormire, quando la signora in questione ha esclamato: “Annullano il treno per il virus!” In un attimo ho immaginato me che arrancavo per tornare in studio, i pazienti da spostare, dormire a Milano invece che a casa mia a Cremona, il fine settimana sconquassato…Per fortuna no, il treno c’era.

Ma il virus aveva già fatto l’ingresso nella mia vita, anche se in modo indiretto. Mi aveva già fatto paura. Poco dopo, viaggiando in treno – il treno agevola il dormiveglia – mi sono lasciato andare ai pensieri, e piano piano sono emersi fantasmi antichi. Mia madre, peraltro donna assai evoluta, essendo laureata in fisica nucleare, racconta ancora oggi che una sua amica delle scuole elementari, in un paesino della val di Cembra, nei primi anni trenta del secolo scorso, era morta di fame. Nel paese trentino, Verla di Cembra, c’era una campanella nell’alto campanile a cipolla, che veniva fatta suonare quando moriva un bambino nato da poco, la “campanella degli angioletti”.

E il racconto dell’orso che ogni tanto scendeva fino alle case del paese, a raspare sulle porte.  Da mio padre, pure lui classe 1930, vengono i ricordi della pellagra, della fame durante la guerra, e della  “doia”, la polmonite, che mieteva vittime soprattutto in inverno, tra bambini e anziani. “L’è mort de doia”, si diceva, come fosse cosa, in fin dei conti, naturale. Mentre il treno procedeva, e saltava la stazione di Codogno, ho constatato che l’esclamazione della signora aveva messo in moto in me fantasticherie che si spingevano fino a immagini antiche, a mie paure ataviche. La Fame Nera, la Miseria. La Bestia, l’ Orso che ti divora.

La “doia”, il male invisibile che non ti lascia scampo. La morte inesorabile, improvvisa. I Capricci di Goya, il sonno della ragione che genera mostri, e un’idea di Freud: nel nostro inconscio sono contenuti gli Io dei nostri antenati. Credo sia profondamente vero. Appena sotto la nostra tranquillità sociale, il nostro tran tran dall’aspetto così solido e saldo, si acquattano terrori ancestrali. Colpisce il fatto che ci vuole davvero poco perché questi archetipi diventino attivi. Sono un patrimonio collettivo che si risveglia con allarmante facilità trasformandosi in azioni: le corse all’accaparramento di cibo, il terrore del contagio, l’idea di un’implosione generale della vita sociale.

Ne ho ricavato l’impressione di una grande nostra, comune fragilità umana, di cui dobbiamo avere cura. Sapere che i mostri del passato sono in tutti noi e non aspettano altro che uscire, ed essere consapevoli che questa loro apparizione è  normale, forse può aiutarci. La Bestia, la Fame Nera, la Peste, la Morte senza scampo: è opportuno guardarli in faccia e tenerli a bada, perché non sono una novità: fanno parte delle nostre memorie più arcaiche. Guardare i mostri in faccia è un esercizio faticoso, ma aiuta, in parte, a non perdere il contatto con la realtà.